Norman Podhoretz

Giulio Meotti

Le sue idee stavano già dietro all'Amministrazione Reagan, hanno contribuito al collasso sovietico e alla delegittimazione intellettuale dell'antisionismo e oggi ispirano Bush. Approdi differenti. Mentre Mailer ne “Il nudo e il morto” descrive la “sindrome del maschio bianco dominatore”, Podhoretz a quel maschio bianco e strasicuro di sé tiene infinitamente.

    Dal Foglio del 15 giugno 2003

    Erano gli inizi degli anni 60 e il critico della Columbia University, famoso e temuto, parlò di “invasione dei Norman”. Si riferiva, Lionel Trilling, a tre emergenti del mondo letterario: Norman Brown, Norman Mailer e Norman Podhoretz. Sul primo, la previsione di Trilling si rivelò piuttosto azzardata. Ma gli altri due il segno l'hanno sicuramente lasciato. Destini quasi paralleli. Non c'è stata polemica politica e culturale negli ultimi trent'anni che non li abbia visti in prima fila. Mentre Mailer è rimasto il radicale liberal di un tempo, anzi ha accentuato e un po' incupito la sua vena e ama oggi definirsi un “conservatore di sinistra”, un pacifista che parla del prefascismo di Bush, denuncia che Israele sta ghettizzando i palestinesi, Podhoretz ha costruito con il tempo la spina dorsale del nuovo mainstream, come ha scritto la Policy Review.

    Le sue idee stavano già dietro all'Amministrazione Reagan, hanno contribuito al collasso sovietico e alla delegittimazione intellettuale dell'antisionismo e oggi ispirano Bush. Approdi differenti. Mentre Mailer ne “Il nudo e il morto” descrive la “sindrome del maschio bianco dominatore”, Podhoretz a quel maschio bianco e strasicuro di sé tiene infinitamente. Anzi, ha intrapreso micidiali battaglie contro la “donna liberata”. Norman Podhoretz ha settantatré anni, viene da Brooklyn, è figlio di ebrei ashkenazi. Lower class: il padre faceva il lattaio, nessuno aveva predisposto per lui un futuro che ne facesse un intellettuale, un formidabile polemista. “Ero un buon ragazzo a scuola e cattivo nelle strade”, ha detto, come avrebbero detto molti suoi coetanei nella New York popolare degli anni 40, pure loro destinati al successo. Come molti suoi coetanei nella New York degli anni 40 entrò in una gang: aveva una divisa, un logo, si sentiva parte di qualcosa. Alla high school fu fortunato a trovare un'insegnante che credesse nel suo talento nascosto. Aristocratica e snob, la ricorda lui, spinse per farlo entrare alla Columbia.

    Era cresciuto in un ambiente ortodosso e obsoleto, ma riuscì a perdere il suo accento yiddish ascoltando le canzoni e gli annunci alla radio. Alla Columbia andò davvero, si distinse come il protetto di Lionel Trilling, autore di “The liberal immagination” e redattore della Partisan Review. Due anni da soldato nella Germania occupata, poi il gran salto nello staff di Commentary, la rivista fondata nel 1945 dall'American Jewish Committee, baluardo, liberal e anticomunista a un tempo, dell'ebraismo americano. Arriva il 1958. La beat mania imperversa nei flat del Village e sugli scaffali delle librerie. A Podhoretz non piacevano, i beat. E scrisse un saggio feroce e precoce, in cui li accusava di “nichilismo pericoloso” e di “barbarie bohemienne”. Ma l'anno successivo diventa direttore di Commentary e, più morbidamente, sceglie di venire a patti con lo spirito dell'epoca. Aprì le porte della rivista a scrittori radicali che appoggiavano il movimento pacifista e a critici come Paul Goodman, che scandalizzò l'opinione pubblica parlando tra i primi delle “meravigliose conseguenze culturali” che sarebbero seguite alla legalizzazione della pornografia.

    “Fui adottato dalla Famiglia”, scriverà poi Podhoretz, intendendo sarcastico quel circolo intellettuale tutto newyorkese che faceva capo a Partisan Review e Commentary. Ma della “Famiglia” rimase sempre un figlio un po' trovatello, le sue opinioni più profonde sempre diverse da quelle degli amici liberal. Lo si capì qualche anno dopo, durante la guerra in Vietnam. Per loro, tutti con gli occhi puntati alla Costa Ovest, a Marcuse, il conflitto divenne l'occasione di critica a tutte le istituzioni, dalla famiglia all'università; per lui rimase solo l'occasione di criticare le ragioni di quella guerra. E intanto contestava il lassismo verso gli eccessi violenti della rivolta studentesca. Una sera è a un party con la moglie, Midge Decter. Alcuni studenti avevano distrutto la casa di un professore e Midge, della stessa pasta di Norman, non nasconde le sue critiche. Dwight MacDonald, il critico di Politics, le risponde seccamente: “Ovviamente hai più a cuore i valori materiali che quelli umani”. Così era il clima. Già prima il clima di John Kennedy, l'atmosfera di grande modernizzazione di Camelot, non lo avevano trovato entusiasta.

    Aveva aderito inizialmente al grande progetto della “affirmative action”, la “discriminazione positiva” destinata a compensare le condizioni di base disagiate causate dall'appartenenza razziale. Una sorta di corsia preferenziale, che dalla scuola fu negli anni estesa al mondo del lavoro. Del resto erano gli anni delle battaglie per i diritti civili, anni ancora di segregazione che persino un bastian contrario come Podhoretz non poteva negare. Ma il suo fiuto per la perniciosa contraddizione del sistema andava lontano, e ne diventò un fiero oppositore. Le sue motivazioni oggi sono prevalenti, allora erano audaci: sosteneva che gli studenti o i lavoratori venivano selezionati senza tener conto dei meriti e delle potenzialità individuali, ma solo in base al colore della pelle, e che il metodo rischiava di diventare una nuova forma di discriminazione. Il dibattito dura ancora oggi e non c'è stato presidente, repubblicano o democratico, nemmeno Reagan, che abbia osato toccare il totem. E ora che Bush si dice pronto a farlo, Podhoretz si sente vendicato.

    Fu in quegli anni, nel clima di quelle battaglie, che Podhoretz decise di risalire a ritroso la corrente e cambiò completamente percorso. Con due libri tosti, “The present danger” e “Why we were in Vietnam”, sostenne le ragioni della causa anticomunista e accusò gli amici di un tempo di “appeasement” verso il mondo sovietico; nel 1976 scrisse che l'Urss era “il più determinato, feroce e barbarico nemico mai apparso sulla terra”. Nel 1979 fu una redattrice della sua rivista, Jeane Kirkpatrick, a pubblicare “Dictatorship and double standard”, in cui si invitava l'Amministrazione repubblicana a fare della lotta al comunismo una priorità. Quando Reagan coniò il famoso slogan sull'Impero del male, Podhoretz stava raccogliendo i frutti della sua intensa campagna. Divenne così la nemesi della New Left, del movimento nero e di quello pacifista, lui che era stato l'enfant terrible dei salotti intellettuali della New York liberal. Un apostata, un rinnegato, un convertito al neoconservatorismo. Da trent'anni gli piovono addosso accuse di ogni tipo.

    Quando nel 1968 uscì “Making it” fecero scandalo le accuse che il tremendo polemista rivolgeva ai suoi ex sodali: brama di successo, lussuria intellettuale, i “piccoli sporchi segreti” autoreferenziali della cultura americana. Rincarò la dose nel 1979, quando descrisse il suo passaggio politico dalla sinistra alla destra in “Breaking Ranks”. “Ex friends” è invece il ritratto di sei relazioni fallite all'interno della “Famiglia”. Con Lilian Hellman, che aveva “simpatie staliniste”, con Hannah Arendt (con cui Podhoretz romperà in seguito al suo “Eichmann at Jerusalem”), con Allen Ginsberg, che considerava Norman un “simbolo dell'establishment”, con Mailer “malato di grandezza”.

    Dicono che il suo disprezzo e la sua insofferenza per tutta quanta la sinistra siano maturati in maniera dirompente una sera a cena, in un ristorante di Manhattan, quando sentì un vicino di tavolo paragonare gli Stati Uniti alla Germania nazista. Un fiume in piena, senza mezze misure. Ha pubblicato saggi sulla questione della colpa americana, sul revival repubblicano, sul fallimento della scuola, sull'educazione, sul dilemma politico degli ebrei americani, contro la legalizzazione delle droghe. Ha accusato di volta in volta i nemici dell'America di demoralizzazione, nichilismo, insensibilità morale, trionfo dei valori bohemien sulle virtù borghesi, di trasformazione dell'adolescenza in ideologia. Dall'altra parte, l'America. “My love affair with America” è una dichiarazione d'amore verso il paese che Podhoretz considera degno di paragone con l'Atene del V secolo, per libertà e prosperità.

    Podhoretz è diventato con gli anni il nume tutelare, la guida del neoconservatorismo, di quella seconda generazione di conservatori provenienti in gran parte dalla sinistra radicale americana, “liberal assaliti dalla realtà”, come ha scritto Irving Kristol, l'altro padre fondatore dei neoconservative. “Eravamo nuovi per il conservatorismo, vi portammo qualcosa di nuovo”, ha detto Podhoretz a proposito della sua parabola culturale. Recentemente, l'arzillo Podhoretz si è presentato al suo pubblico così: “Salve, sono un utopista”. Del resto non è un caso se il Weekly Standard, giornale fieramente neoconservative, sia stato fondato nei locali dell'Utopia Coffee Shop, un bar nell'Upper West Side. Oggi Podhoretz si è ritirato, condivide con la moglie un delizioso appartamento dall'altra parte dell'Utopia, nell'Upper East Side. Lui ha lasciato il suo incarico a Commentary, Midge trascorre le sue giornate a nuotare in un circolo vicino casa. Ma non ha smesso di combattere.

    La battaglia più recente si chiama Gerusalemme. Negli ultimi anni ha fatto della difesa a oltranza di Israele il suo cavallo di battaglia, riuscendo a scavare una breccia nella comunità ebraica americana, storicamente più vicina ai democratici. Ha attaccato Shimon Peres, “vittima delle sue convinzioni”, ha definito gli accordi di Oslo una rovina per Israele, è stato tra i primi a sostenere che l'antisionismo non è altro che una moderna forma di antisemitismo. Il passo alla religione è quasi conseguente. La sua ultima opera si intitola “The Prophets: Who they were, What they are”. Podhoretz legge la difesa dell'unico Dio e la lotta all'idolatria pagana degli antichi profeti come il paradigma delle sue battaglie contro i vari movimenti, a cominciare da femminismo e ambientalismo. Del resto l'arzillo polemista ha dimestichezza anche con le Scritture, avendo in tasca un Bachelor's degree in Letteratura ebraica al Seminar College of Jewish Studies di New York. Ma il suo grande amore restano gli Stati Uniti, paese al quale va “la gratitudine di tutti coloro che una benevole provvidenza ha depositato sulle rive della terra dei liberi e della casa dei coraggiosi, a vivere la loro vita, a guadagnarsi da vivere sotto la sublime bellezza dei suoi cieli spaziosi”. Il Washington Times, che è giornale duro e spiccio, ha commentato con un “amen” il tono elegiaco. Forse era ironia, ma suonava bene.   

    In breve
    È nato nel 1930 a Brooklyn, in una famiglia di ebrei ashkenazi di ceto popolare. Entra alla Columbia University e si fa presto notare per il suo talento di critico e polemista. È stato per 35 anni direttore della rivista Commentary, fondata nel 1945 dall'American Jewish Committee. Le sue battaglie intellettuali ne hanno fatto un riferimento obbligato del pensiero neoconservatore americano. Ha scritto vari libri, tra cui “Making It”, “Ex Friends” e il recente “The Prophets: Who they were, What they are”.

    Giulio Meotti vive ad Arezzo, si è laureato in Filosofia a Siena con una tesi su George Steiner.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.