Leggere la metropoli
“E in mezzo a tutto ’sto casino è facile anche dire: / è proprio necessario poi?”. Così canterebbe Jannacci quest’oggi, e se ne starebbe volentieri a parlare con i limoni. I milanesi veri, quest’oggi, giorno di autorità inauguranti all’Expo e di primomaggismi ufficiali, o sono al sicuro fuori città o se ne stanno rintanati in casa. In mancanza da limoni con cui fare due chiacchiere, ci sono libri che Milano la raccontano meglio che neanche a vederla. Come ad esempio il libro (non è un romanzo, non sono proprio racconti. Solo l’enigmistica pretende le definizioni secche) metropolitano, nel senso che si svolge/parla nella/della metropolitana, di Stefano Bartezzaghi, una chicca di primavera. Si intitola “M - Una metronovela”, l’ha mandato da poco in libreria Einaudi. E’ un libro in cui tutti i capitoli sono nomi delle fermate dell’underground milanesi: “Cimiano”, “Affori”, “Cordusio”. Si parla di loro – le fermate – ma non solo di loro. Si parla di una città conosciuta da sotto in su. C’è Venezia, “Venezia è bellissima, però ci vivrei”. E c’è “un cielo scorto uscendo da una delle scale di uscita della fermata metro di Porta Venezia: Porta Venezia, angolo assai manzoniano di Milano, peraltro”. Ma non c’è solo questo. Ci sono persone, incontri, ricordi milanesi e no. Ci sono la psicologia, la filosofia, le letture e le nevrosi dell’uomo metropolitano (nel senso del mezzo di trasporto), ma che a volte è un passante (anche nel senso del Passante ferroviario, la tangenziale su binario di Milano), oppure sarà solo un pedone? Da molto tempo Stefano Bartezzaghi non è più un enigmista, non è mai stato solo un calembourista, non so se sia un linguista o uno storyteller o un filosofo del linguaggio. Salendo e scendendo dai mezzanini con lui si trova un po’ di tutto questo. E si riconoscono e scoprono angoli di città, e ci si riconosce in tic metropolitani e milanesissimi.
I milanesi hanno una toponomastica mentale – se non proprio del cuore, va’, non esageriamo – per cui come fosse una tovaglia ricamata la città viene letta, per chi la conosce, dal suo rovescio, da sotto. “Abito a Gambara”, “quel negozio che c’è a Caiazzo”, “una ragazza di Pagano”, “vediamoci a Moscova”, dove ovviamante Moscova non è la stazione della Linea verde (la metropolitana a Milano non ha numeri né lettere, solo colori) ma espressione sintetica per “vediamoci in uno di quei locali molto concettuali e che cambiano continuamente insegna tra Corso Garibaldi e Largo Treves”. L’angolo visuale da cui Bartezzaghi osserva la città è esattamente quello, autore-narratore che sale e scende dalle carrozze, disegna percorsi milanesi che sembrano fatti alla cieca (siamo pur sempre sottoterra, la maggior parte del tempo), ma sono incredibilmente pieni di rivelazioni. Illuminante.
Per chi lo avesse tenuto in cantina finora, questi sono i giorni giusti per gustarselo. E’ il vino di fresca beva di “Il vigneto da Vinci”, un thriller come sempre enologico che Giovanni Negri – che da tempo ha mollato Pannella per fare il vigneron-scrittore nelle Langhe – ha ambientato a Milano, nei giorni di Expo. C’è un professore che scompare a due sole settimane dal suo discorso inaugurale all’Expo, ci sono trame e tresche e ricerche sul vino, la genetica, gli Ogm. Ma soprattutto c’è il vigneto che fu di Leonardo, a due passi dal Cenacolo. Tutta storia. La vigna di Leonardo c’era davvero, anche se oggi il luogo, divenuto giardino, è noto come “gli orti” di Leonardo. Il Genio da Vinci ottenne la vigna come pagamento da Ludovico il Moro, per farci, come sembrerebbe dalle ricostruzioni storiche, una Malvasia, vitigno del piacentino. La cosa non paia bizzarra, già nel medioevo Milano era piena di vigne, e Bonvesin elenca decine di qualità di vini fatti in città. Ma Leonardo non riuscì mai a produrre il suo, perché di lì a poco se ne partì per la Francia.


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