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Preghiera

Le ferite e l'entusiasmo dei toreri

Camillo Langone

Anche i più bravi, prendono tantissime cornate. E ricevono ferite al volto, al petto, al ventre, alle gambe, continuamente finiscono in barella. Ma al tempo stesso si immergono nella profondità dell'essere. Juan Belmonte dice: "Mi tuffai a uccidere come uno che si tuffa in mare"

Gli appassionati taurini sono appassionatissimi e insistentissimi e alla fine mi hanno costretto a leggerlo, “Juan Belmonte matador di tori” di Manuel Chaves Nogales (Edizioni Settecolori). In apparenza è un’autobiografia anziché una biografia, e in parte anche in sostanza, siccome il grande torero era uomo intelligente e colto, grande lettore (di D’Annunzio per esempio) e grande amico di letterati: un contributo lo ha dato senz’altro. Ho imparato molte cose sulla Spagna e in particolare sull’Andalusia e su Siviglia, ma pure su Barcellona (che di Siviglia è quasi l’opposto) e su Lima (che di Siviglia è quasi la copia).

E una cosa sulla corrida: i toreri, anche i più bravi, prendono tantissime cornate. Pensavo che gli incidenti fossero un’eccezione e invece sono la regola. I toreri abitualmente vengono feriti al volto, alla bocca, alle mani, alle braccia, al petto, al ventre, alle gambe, frequentemente vengono buttati in aria e magari calpestati, continuamente finiscono in barella, in ospedale, sul tavolo operatorio, sfregiati, spezzati... Perché lo fanno? Per entusiasmo, dice Belmonte, per qualcosa che supera la propria volontà, per immersione nella profondità dell’essere: “Mi tuffai a uccidere come uno che si tuffa in mare”.
 

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).