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Fratelli di demagogia
La corsa all'oro di Meloni crea un bel guaio con Bce, Quirinale e Commissione
Spostare le riserve dal bilancio di Palazzo Koch a quello dello stato violerebbe i Trattati e lo statuto del Sebc. E non farebbe altro che creare ulteriori tensioni con l'Ue dopo la procedura d'infrazione aperta sul Golden power
“La Bce non è stata consultata dalle autorità italiane su questo emendamento e non ha commenti da fare al riguardo”. A Francoforte formalmente non sanno nulla dell’emendamento alla legge di Bilancio del capogruppo al Senato di FdI, Lucio Malan, sulla proprietà dell’oro della Banca d’Italia. Ma in realtà c’è massima attenzione sul tema. In primo luogo perché la Bce dovrebbe essere obbligatoriamente consultata su materie di sua competenza. E in secondo luogo perché la proposta del partito della premier Giorgia Meloni è in contrasto con i Trattati europei e lo statuto del Sistema europeo di banche centrali (Sebc). Inizialmente tutte le autorità pensavano che l’emendamento Malan venisse accantonato. Ma non c’è stato né un filtro politico (l’emendamento è tra quelli segnalati) né istituzionale (è stato dichiarato ammissibile), nonostante un quadro normativo che lascia poco spazio alle interpretazioni.
La proprietà dell’oro della Banca d’Italia, che è un istituto di diritto pubblico e in questo senso le sue riserve già sono del “popolo italiano” come recita l’emendamento Malan, era un cavallo di battaglia della destra quando FdI e Lega volevano l’uscita dall’euro: sancendo che la proprietà delle riserve auree è dello “stato” invece che di Bankitalia si voleva a sottrarre questo patrimonio al Sebc (Sistema europeo delle banche centrali) e alla Bce. Ora il contesto politico è molto diverso, Giorgia Meloni è in piena sintonia con Bruxelles e insieme al ministro Giorgetti ha condotto l’Italia fuori dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo con un anno di anticipo. Ma la sostanza dell’emendamento rimane la stessa. E, a maggior ragione, non si comprende bene l’obiettivo pratico e politico di un emendamento del genere, che può solo provocare frizioni con la Bce, la Commissione Ue e il Quirinale, che ha il dovere di monitorare la conformità delle nuove leggi alla Costituzione e quindi anche ai Trattati europei.
In ogni caso, l’emendamento che tanti pensavano venisse fermato va avanti: è il primo nella lista dei “segnalati”. Al momento c’è sicuramente un inadempimento delle autorità italiane. L’art. 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) stabilisce infatti che la Bce deve essere consultata “dalle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze”. E le riserve auree sono certamente una di queste, dato che – sempre secondo quanto stabilisce lo stesso articolo – uno dei compiti fondamentali del Sebc è “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli stati membri”. Chi deve consultare la Bce?
La procedura è disciplinata dalla decisione 98/415 del Consiglio: può essere un ministro se la proposta è di iniziativa governativa, oppure i presidenti delle Camere se è di iniziativa parlamentare. In questo caso, trattandosi di un emendamento a una proposta in discussione al Senato, il presidente Ignazio La Russa avrebbe dovuto interpellare la Bce. Non lo ha fatto. Toccherà al ministro dell’Economia Giorgetti, che dovrà esprimere il parere del governo sull’emendamento Malan. “Sentiremo prima la Bce, siamo obbligati a farlo” dice una fonte del Mef, senza specificare se poi il parere del governo si allineerà a quello della Bce. “Vediamo… sicuramente lo chiederemo”.
Da Francoforte non si attendono sorprese. La posizione della Bce è nota ed è stata con chiarezza espressa in un parere del 2019 dell’allora presidente Mario Draghi in risposta a una proposta di legge analoga sull’oro presentata dal leghista no-euro Claudio Borghi. In quel testo, pur non esprimendosi sulla “nozione di proprietà”, Draghi specificava che “il Trattato si riferisce alla dimensione della detenzione e della gestione in via esclusiva delle riserve”: su questa materia gli stati non possono influenzare le banche centrali nazionali, le cui decisioni vengono prese “in completa autonomia”. Draghi poi precisava che “la detenzione e la gestione indipendente delle riserve ufficiali in valuta estera (comprese le riserve auree) significa altresì specificamente che le riserve ufficiali in valuta estera (comprese le riserve auree) devono essere iscritte nello stato patrimoniale delle Banche centrali nazionali o della Bce”: ciò vuol dire che spostare le riserve dal bilancio della Banca d’Italia a quello del Tesoro italiano violerebbe l’art. 123 del Trattato che vieta il finanziamento monetario agli stati. Insomma, se la Banca d’Italia detiene le riserve auree come un proprietario, le gestisce come un proprietario e le ha iscritte nel suo stato patrimoniale come un proprietario, allora vuol dire che ne è proprietaria. Anche perché, di una nozione di proprietà svuotata, che cioè non comporta il diritto di godere e disporre dell’oro, il governo non saprebbe cosa farsene.
Palazzo Chigi può ignorare del tutto la Bce, ma questo comporterebbe una duplice procedura d’infrazione, di metodo e di contenuto, per non aver consultato la Bce e per violazione dei Trattati sulla politica monetaria. Si aggiungerebbero alla procedura d’infrazione appena aperta per l’uso del Golden power sulle banche. Ma se nel caso dell’intervento contro l’operazione Unicredit-Bpm gli obiettivi del governo erano evidenti, qui si fa fatica a capire quali siano e se valgano l’apertura di un fronte in Europa con la Commissione e la Bce, e in patria con la Banca d’Italia e forse il Quirinale.