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L'analisi
“In Veneto è il trionfo di Zaia, ma il centrosinistra non può festeggiare”, spiega Giovanni Diamanti
In termini assoluti, il Pd guadagna 30mila voti e la coalizione 70mila sul 2020. “Sono pochi: il risultato regionale è modesto, siamo di fronte a un chiaro insuccesso. E senza più doversi confrontare con Zaia”, dice il politologo analizzando i risultati alle regionali
Serenissima sinistra. Fin troppo: il giorno dopo le elezioni esultano un po’ tutti. “Siamo di nuovo protagonisti in questa regione”, proclama Giovanni Manildo, il candidato che sconfitto non sembra. “Una coalizione così larga non eravamo mai riusciti a metterla in piedi: i dati di Venezia – dove i progressisti l’hanno spuntata sul centrodestra per lo 0,5 per cento – sono una buona premessa per le prossime comunali”, gli fa eco Elly Schlein. C’è un’opposizione sorridente, insomma. Perché il 15 per cento delle scorse regionali è quasi raddoppiato – e pazienza se resta meno della metà del 64 di Alberto Stefani. In realtà, fra gli analisti e i realisti, la lettura del quadro è decisamente altra. “E il bottino del centrosinistra magro: è vero che il Veneto non è contendibile, ma si poteva e si doveva far meglio di così”, taglia corto Giovanni Diamanti, stratega della comunicazione politica e cofondatore di Quorum e YouTrend. “Siamo di fronte a un chiaro insuccesso, a un risultato modesto”. Non ditelo ai dem, però.
Le percentuali ingannano. E le coalizioni pure: nel 2020 Arturo Lorenzoni si presentò da solo, senza M5s, mezzi riformisti e quel che sarebbe confluito in Avs. Tradotto, voti alla mano, Manildo oggi avrebbe racimolato appena 70mila voti in più di cinque anni fa. E il Pd 30mila. “Sono pochi. Non si tratta affatto si un raddoppio”, sottolinea Diamanti. “E poi sono finiti i tempi in cui le regionali vanno paragonate alla tornata precedente: la volatilità elettorale di questo paese, un tempo moderata, oggi è notevole. In cinque anni cambia il mondo”. Per non parlare del fatto che nel 2020 c’era lo scoglio inscalfibile della lista Zaia, “che ora non si è nemmeno candidata” – e infatti, a proposito di voti nudi e crudi, la Lega che pur canta vittoria ne ha persi oltre 600mila in assoluto. “Dunque bisogna fare i conti con la realtà, collocando le singole partite nel complesso elettorale: europee, politiche. Dove il centrodestra vale il 57-59 per cento e il centrosinistra 37-38. Rispetto a questo confronto, Manildo perde quasi 10 punti”.
Difficile attribuire colpe all’ex sindaco di Treviso, immolatosi con entusiasmo per la causa quando nessun altro era disposto a imbarcarsi in una causa persa. “Eppure Manildo è partito con livelli di conoscenza molto bassi fra i cittadini, senza riuscire a invertire la tendenza”. L’ultimo sondaggio Ipsos prima delle urne sottolineava che appena 4 veneti su 10 sapevano chi fosse il candidato di centrosinistra. Un dato scoraggiante. E ribadito dai social, dove i dem restano indietro anni luce: se fino alla discesa in campo di Stefani – dati YouTrend – entrambi i candidati si aggiravano attorno al migliaio di follower tra Instagram e Facebook, dopo l’8 ottobre scorso il confronto diventa impietoso. Manildo arranca fino a poco più di 4000. La crescita dell’erede di Zaia invece si fa esponenziale, +29mila complessivi. E non basta la superiorità della macchina elettorale leghista – e delle sue risorse – a spiegare un tale divario. “La campagna di Manildo è stata flebile, poco visibile. Stefani invece ha battuto su pochi tasti ma con forza adeguata. Il centrosinistra avrebbe fatto bene ad anticipare la discussione sul candidato: nessuno però aveva intenzione di bruciarsi”.
Perché è ingannevole anche il vantaggio cronologico di qualche mese, se consideriamo che Manildo fu annunciato in piena estate: l’opposizione aveva cinque, anzi 15 anni per costruire un’alternativa politica credibile e progettuale alla fine dell’era Zaia. E non l’ha fatto. “Ci vuole tempo, un programma e un’organizzazione di lungo termine per scalfire l’egemonia del centrodestra in Veneto”, sottolinea il politologo. “Qualche elemento da cui ripartire però s’intravede: non è tutto da buttar via”. Cioè? “Dopo tanti anni, il centrosinistra ha creato una vera coalizione in grado di unire tutti i mondi moderati e progressisti. Mentre i veneti hanno dimostrato di saper distinguere e scegliere un’alternativa, quando presentava progetti e persone valide: le regionali non sono certo le amministrative, ma la conquista di molti capoluoghi chiave – Padova, Verona, Vicenza, tutti con caratteristiche diversissime – è un chiaro segnale in questo senso. E inoltre, a livello di preferenze, anche in questa tornata è stata premiata una classe dirigente locale ben radicata. Con queste premesse, a Venezia si può stupire”. E in Italia? “Il campo largo non è necessariamente l’unica soluzione. Però al momento è l’unica che fatti alla mano si dimostra competitiva: su questo Schlein non ha torto”. E tra due anni vedremo se il Pd farà davvero tesoro del Veneto.