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Anche le cene hanno orecchie

Il Quirinale non rischia a palazzo, ma nei salotti satolli di vino e lasagnette

Salvatore Merlo

Il caso Garofani rivela un problema antico: quando un consigliere parla, anche solo per sbaglio, a parlare è sempre il Colle. E spesso la frase di troppo nasce da un brindisi di più

Un manuale del “Come non farsi sentire mentre si parla troppo” – giusto di questi tempi – è perfino più urgente di un rinnovato “Cencelli”. Uno stuzzicadenti, infatti, può essere uno scossone – perfetto per far cadere un governo – ma per proteggere il presidente, basta una mossa eroica: restarsene zitti con un bicchiere d’acqua in mano.

 

Il caso di Francesco Saverio Garofani, il consigliere di Sergio Mattarella che è stato sentito in una cena mondana augurarsi “un provvidenziale scossone” per disarcionare Giorgia Meloni, non resterà certo negli annali della Repubblica. Tra qualche giorno, c’è da scommetterci, non se ne parlerà più. Resterà tuttavia, forse, nel sottotesto istituzionale del galateo d’emergenza. Attorno al Quirinale, infatti, c’è un fenomeno atmosferico curioso: più sali di quota istituzionale, più la parola diventa scivolosa. E i consiglieri, poveretti, lo sanno. Ma talvolta scivolano lo stesso.

 

La verità è che non serve prendersela con Garofani che straparla alle cene: il problema non è personale, è di specie. Il consigliere del Quirinale, quando varca la soglia di un salotto, quando accetta un invito a cena, subisce una metamorfosi. E c’è capitato di vederlo con i nostri occhi in diverse occasioni. Arriva composto, silenzioso, intenzionato a dire solo “buonasera”. Ma il salotto romano è una trappola gentile: divani morbidi, tappeti che attutiscono il senso del dovere, un desinare che narcotizza la prudenza. E poi, soprattutto, gli ospiti. Gli ospiti che si avvicinano con la stessa reverenza con cui ci si accosta a una reliquia: “Ma lei lavora al Colle? Davvero? E allora, mi scusi, ma…”. A quel punto, il consigliere è perduto. Non subito, eh. Prima resiste. Dice frasi neutre, scolastiche, che non compromettono nessuno. Ma basta che qualcuno gli porga una tartina e un complimento, ed ecco che la diga si incrina. Una mezza frase: “Beh, diciamo che…”. Un mezzo sorrisetto: “Su questo aspetto…”. Un’osservazione buttata lì come uno stuzzicadenti, appunto: come un auspicato ribaltone. Il tutto accompagnato da quel bicchiere di vino che, per misteriosa legge repubblicana, ha l’effetto di trasformare il più rigoroso dei funzionari in un narratore inconsapevole. E così nasce il problema. Perché il consigliere può anche pensare di essere in un contesto informale, “quattro chiacchiere tra amici” come si è giustificato Garofani sul Corriere della Sera, ma chi ascolta sente il Presidente, non lui.

 

Un consigliere, sia detto una volta per tutte, non è mai solo un individuo. E’ un’emanazione. Come quei bravi attendenti dei romanzi inglesi che esistono solo quando non si vedono. E così si scatena la versione istituzionale del telefono senza fili: lui dice una cosa piccola, esce una cosa grande. Lui intende un’impressione, esce una linea, lui sta esprimendo opinioni personali ma diventano quelle del capo dello stato. La fisica del fraintendimento è implacabile. E’ una dinamica che non richiede complotti, né segreti. Basta una frase male imburrata tra la lasagnetta e il pollo al curry. E allora meglio una parola in meno che una parola in più, come si dice a Palermo, che è poi la città del presidente Mattarella. La soluzione non è una riforma costituzionale, è una dieta sociale. Meno cocktail, meno presentazioni di libri, meno divani, meno manicaretti. Quello che Flaiano, se fosse tra noi, chiamerebbe “il silenzio degli intelligenti”. Non per moralismo: per sopravvivenza.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.