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l'editoriale del direttore

Che aspetta Schlein ad andare a Kyiv e abbracciare Zelensky?

Claudio Cerasa

La scelta è semplice: dare al Pd una linea coerente con la sua storia e contrastare l’orbanizzazione di buona parte del campo largo con un gesto di leadership vera. La difesa dell’Ucraina è difesa della democrazia e della libertà, anche con la forza se necessario

Elly, che aspetti ad andare a Kyiv? La visita in Italia di Viktor Orbán, per ragioni legittime, ha spinto nei giorni scorsi l’opposizione ad alzare la voce e a chiedere chiarimenti immediati sulla posizione dell’Italia rispetto a uno dei temi più cari a Orbán: il rapporto dei populisti antieuropeisti con il putinismo. L’opposizione fa e ha fatto il suo gioco e giustamente ha notato quanto spesso Orbán sia venuto in Italia a omaggiare Meloni (tre volte, nessuno come lui), ha notato quanto pericoloso sia avere nella maggioranza di governo un partito alleato in Europa con il filoputiniano Orbán (ovvero la Lega) e ha notato quanto dannoso sia per l’Italia avere un presidente del Consiglio desideroso di assecondare la linea di Orbán su un tema da cui passa il futuro dell’efficienza europea e dunque la sua stessa essenza: l’uscita dalla stagione dell’unanimità e l’ingresso nella stagione dell’Europa a due velocità, in grado cioè, sulle partite che contano, di decidere a maggioranza.

   

L’opposizione aveva chiesto già in precedenza al governo una maggiore chiarezza sul tema dell’Ucraina, dopo il video falso montato con l’intelligenza artificiale in cui una Meloni vera diceva con voce ritoccata che l’Italia sarebbe stata pronta a rivedere i suoi impegni in Ucraina, video diventato reale pur essendo non reale nel momento in cui è stato rilanciato da Donald Trump, con il quale i confini tra ciò che è reale e ciò che è virale spesso si perdono senza troppi problemi. E dopo quel video, si diceva, l’opposizione ha chiesto chiarimenti che ha avuto. L’Italia, hanno detto prima il ministro Guido Crosetto a questo giornale e subito dopo Giorgia Meloni in Aula durante le comunicazioni in vista del Consiglio europeo, è e resterà dalla parte dell’Ucraina, perché una Ucraina più debole sarebbe un pericolo per la sicurezza di tutta l’Europa, compresa l’Italia. L’interesse progressivo mostrato dall’opposizione rispetto alla necessaria non orbanizzazione della maggioranza sui temi che riguardano l’Ucraina cozza in modo clamoroso però con quello che è il posizionamento assunto in questi mesi dal campo largo proprio su uno dei temi più importanti della nostra politica estera. E a Elly Schlein in questi giorni non potrà essere sfuggito che mentre il Pd chiedeva al governo di non farsi trascinare nella palude orbaniana, in quella stessa palude hanno affondato gli stivali diversi partiti che compongono il campo largo, dai compagni di Avs fino al Movimento 5 stelle.

   

La chiarezza del governo, naturalmente, è sempre ben accetta, e bene farebbe Meloni prima o poi a dire che è vero che l’Italia non invierà soldati in Ucraina, ma è anche vero che l’Italia, avendo promosso il modello articolo 5 per l’Ucraina, i soldati è pronta a mandarli nel momento del bisogno, essendo i suoi soldati già oggi ai confini dell’Ucraina, cioè nei paesi dove l’Italia partecipa con i partner Nato alle missioni militari nell’Europa dell’est. Ma quello che segue non vuole essere un ragionamento di carattere moralistico, indirizzato alla leader del Pd. Vuole essere solo un invito, non sappiamo se disperato o no, affinché la leader del Pd mostri, dall’opposizione, lo stesso coraggio mostrato nel 2022 dall’opposizione da Giorgia Meloni, scegliendo di fare sua una causa, come quella dell’Ucraina, che a Schlein dovrebbe venir naturale abbracciare senza più ambiguità. Schlein è una leader giovane, che come tutti i leader giovani sa quanto alle generazioni più giovani stia a cuore il tema della difesa della libertà e che come tutti coloro che hanno ruoli di guida nel Pd sa bene quanto sui temi dell’Ucraina i democratici italiani vengano considerati dai cugini di tutta Europa come delle pecore nere più inclini all’irresponsabilità che alla responsabilità. Il Pd è titubante quando si parla di inviare armi all’Ucraina, è titubante quando si parla di sostenere la controffensiva dell’Ucraina, è titubante a parlare con toni perentori della difesa della pace anche con la forza e il fatto che questa battaglia per Schlein sia potenzialmente nelle sue corde, come poteva essere nelle sue corde la difesa di Israele, alla quale invece Schlein ha preferito la difesa del partito che ha cercato in questi anni di nazificare Israele, è anche nella sua carta di identità. Schlein ha origini ucraine dal lato paterno: il nonno, Hersh Schlein, era un ebreo originario di una zona dell’attuale Ucraina, tra Leopoli e Ternopil, e in quella zona negli ultimi tre anni non sono mancati i bombardamenti dei russi.

 

Schlein ha di fronte a sé una scelta in fondo semplice. Dare al Pd una linea coerente con la sua storia passata e anche con quella moderna, una storia fatta di antifascismo e di europeismo, scrollarsi di dosso le timidezze dettate dall’imbarazzo legato all’orbanizzazione di buona parte del campo largo e compiere finalmente un gesto di leadership vero, non di followship, facendo letteralmente, e non in senso figurato, un passo verso l’Ucraina. Con le parole, certo, con le politiche, ovvio, ma anche con il proprio corpo. Tra i principali leader della sinistra europea, Schlein è uno dei rari casi di campioni del progressismo che, nell’esercizio delle proprie funzioni, hanno scelto di stare lontani da Kyiv non solo con il cuore ma anche con il fisico, e il fatto che Schlein, da quando è leader del Pd, non abbia mai messo piede a Kyiv, come Giuseppe Conte, è una ferita aperta per ogni europeista italiano, di destra e di sinistra. Saltare su un treno, visitare Kyiv, abbracciare Zelensky e dire che la difesa dell’Ucraina è la difesa di tutto ciò che difende un europeista moderno: democrazia e libertà, anche con la forza se necessario.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.