Stephen Moore, della Heritage Foundation, nello studio Ovale (LaPresse)
l'abbaglio
Da Licio Gelli alla Heritage Foundation, l'eterno complottismo sulle riforme
Secondo Report, il "Project 2025" non sarebbe altro che un globale "piano di rinascita democratica" di gelliana memoria a stelle e strisce. E' il caso di ricondurre tutto a ragione e demistificare gli aspetti più sensazionalistici
Perché perdere tempo a leggersi le oltre novecento pagine di Project 2025, il voluminoso tomo di advocacy politica partorito dal think tank conservatore Heritage Foundation, quando ci si può beare dell’efficace sintesi prodotta da Report? Nei fatti, stando alla trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci, il volume non sarebbe altro che una sorta di globale “piano di rinascita democratica” di gelliana memoria, con dentro solo un po’ più di bestiame del Montana e di hamburger californiani, e la Heritage una Spectre fuori tempo massimo, con Kevin Roberts al posto di Blofeld. Un’oscura Torre di Mordor che proietta il proprio occhio fiammeggiante oltre l’Oceano Atlantico, dettando l’agenda politico-istituzionale dei vari paesi a trazione “sovranista”. E viene da immaginarsi un Nordio-Saruman soggiogato attraverso il palantir della “separazione delle carriere” dal nero Signore del pensiero reazionario che, dagli Stati Uniti, gli indica la pagina esatta di Project 2025 da consultare per le sue riforme.
Esaurita la verve psichedelica alla Castaneda, è forse il caso di ricondurre a ragione tutto e demistificare alcuni aspetti sensazionalistici. La Heritage Foundation non è l’epicentro di un’internazionale nera ma un rispettabilissimo think tank che della advocacy fa la propria missione istituzionale. Fondata a Washington nel 1973 da Paul Weyrich, Joseph Coors e Edwin Feulner, tutti appartenenti all’ala New Right del Partito Repubblicano, quella che nel 1964 aveva sostenuto Barry Goldwater e che ferocemente si sarebbe impegnata nelle “guerre culturali” contro la sinistra lungo tutti gli anni sessanta e settanta, la Heritage propone una visione di conservatorismo molto distante dall’approccio neocon. La sua stessa fondazione origina dalla necessità di fornire strumenti di analisi delle politiche pubbliche e di lotta culturale ai parlamentari repubblicani.
Non per caso, sempre nel 1973, i fondatori dell’Heritage istituiscono il Republican Study Committe, un congressional caucus ideato per dare una piattaforma di lavoro ai parlamentari affini al pensiero della New Right e coadiuvarli in termini di law making. Lo strumento più potente prodotto dall’Heritage è quello dei “Mandate for Leadership”, voluminosi tomi di policy. Il primo è del 1981 e viene realizzato in occasione della presidenza Reagan: l’allora Presidente ne rimane così positivamente impressionato da cooptare diversi degli estensori tra le maglie dell’Amministrazione. Il Mandate del 1981 consiste di duemila punti programmatici, funzionali a raggiungere una severa riduzione degli apparati pubblici, implementare politiche aperte al mercato e alla libertà di impresa ma senza colpire le realtà locali, frontale contrasto al riconoscimento di nuovi diritti civili e attivismo per moralizzare i costumi politici. E’ plausibile suoni familiare. Perché il famigerato “Project 2025” non è altro che il nono Mandate for Leadership. L’America reaganiana ha implementato circa il 60 per cento delle policy consigliate dalla Heritage e non ha cessato di essere un sistema liberal-democratico.
Le preoccupazioni maggiori, quelle che Report ha traslato anche in Italia, sono da sempre quelle concernenti i rapporti tra esecutivo e giudiziario. Questo perché la Heritage, come pure la Federalist Society, think tank conservatore di matrice giuridica, sposa la dottrina costituzionale dell’unitarietà del potere esecutivo. Una dottrina sostenuta da eminenti studiosi del diritto costituzionale, come Adrian Vermeule ma anche, nella sua declinazione lieve, da giuristi liberal come Cass Sunstein. Come lascia agevolmente intendere il nome, la teoria si basa sull’idea che l’intero assetto del potere esecutivo risieda nelle mani del Presidente. I riferimenti a sostegno della tesi sono il Virginia Plan della Convenzione costituzionale di Filadelfia del 1787, l’Executive Vesting Clause dell’articolo II della Costituzione, e la Take Care Clause, di cui all’art. II, sezione terza.
Non si tratta di una dottrina che ambisce a sopravanzare gli altri poteri, ma a determinare l’inesistenza di vincoli all’interno del solo potere esecutivo; non a caso viene usata per le nomine e per le revoche negli uffici pubblici, per alcuni aspetti di politica internazionale o militare. Nulla di eversivo, tanto che su di essa più volte si è esercitata la Corte Suprema, e lo stesso Barack Obama nel 2010 se ne è servito.
E soprattutto, Report stia pure sereno, nulla di esportabile in Italia visto che il nostro ordinamento costituzionale nel suo complesso è totalmente diverso. E diverso lo rimarrà anche dopo la riforma Nordio.