(foto Getty)
L'editoriale dell'elefantino
La Repubblica delle illusioni
Come si è estinta l’equivoca convergenza tra élite e ceto medio teorizzata da Carlo Caracciolo
Il ciclo editoriale e antropologico di Repubblica e di quella “certa idea dell’Italia” di cui scriveva ieri Ezio Mauro si è esaurito. Non solo perché i giornali commerciali si vendono e si rivendono, com’è noto perfino ai comitati di redazione: questo è il meno. E’ fuori mercato quella idea dell’Italia che fu il nucleo cinico farlocco, insieme perbenista e canagliesco, dell’editore Carlo Caracciolo, di cui si celebrano il centenario della nascita e il quasi ventennale della morte. Lo sposalizio delle élite e del ceto medio riflessivo, combinazione etica equivoca secondo l’interpretazione definitiva di Alfonso Berardinelli, un magico de profundis con molti anni di anticipo sul trapasso, è ormai un divorzio. Non è Repubblica che è destinata all’estinzione di sé come formula editoriale e grande ideale della piccola borghesia affluente, è il suo paese che non c’è più. Caracciolo fu un grande talento dell’editoria, ma i suoi pronipoti Elkann hanno capito che la base del suo sogno sulfureo è franata irrimediabilmente. Il mondo si è disfatto di una certa idea conformista del bene pubblico, inteso come medietà, spirito di maggioranza, narcisismo morale, e si è immerso nella solita combinazione storica di bene e male, filtrata dalla prevalenza del privato.
Il paradosso è che Caracciolo era curioso come una scimmia, elegante e principesco nella sua predilezione per il diverso da sé, naturalmente trasversale, non solo per i suoi vizi privati, sui quali seppe sorvolare con astuzia il prete furbo che gli dedicò l’omelia funebre a San Bartolomeo all’Isola, ma per attitudine del suo Ego profondo. Far quattrini, vincere nella competizione, innovare, influenzare l’opinione nazionale, architettare grandi feste in maschera idealista, vendere al momento giusto, questo certo gli piaceva, era il suo programma di vita post olivettiano, era il suo club. Ma guardava con malinconia e sprezzatura alla religione civile e alla moralina dei benpensanti, categoria cui era del tutto estraneo.
Compensò la costruzione editoriale e culturale dell’ovvio mediatico, che portava copie, clienti e azionisti vogliosi di prosternazione agli idoli del momento, con i suoi annunci preferiti al poker, i bluff, che erano sintomi della sua indisponibilità a seguire il solco da lui stesso tracciato.
Ebbe una bella vecchiaia, dava l’aria di sapere come sarebbe andata a finire. Le sue case e tenute di campagna furono il ricettacolo insieme austero e godereccio delle mille diversità che i suoi giornali non hanno mai accettato e ospitato. La scrivania quadrata, senza capotavola, era un altro segno della sua indisponibilità a essere capobranco o vestale della magistrale fabbrica di illusioni e manipolazioni che aveva messo in piedi. Espresso e Repubblica furono le sue bandiere, certo. Ho la vaga impressione, ma sempre più solida col passare del tempo, che apprezzasse, da grande cinico impenitente, da Don Giovanni dell’editoria, il loro successo commerciale, aspettando senza troppa ansia che il Commendatore arrivasse per cena e facesse sprofondare la loro sussiegosa pretesa filantropica e disciplinatamente progressista nell’inferno e nel disordine che amava sopra ogni altra cosa.