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Natalità
La fecondità crolla anche dove il sostegno alla natalità è più forte
In Italia nel 2024 il tasso di fecondità è sceso sotto gli 1,2 figli in media per donna. Un fenomeno che non si spiega solo con i numeri, il problema è anche antropologico: sta venendo meno l’importanza dei figli nella vita delle persone
Ahi, i dati. Possiamo detestarli, troppo invadenti, troppo manovrabili. Non possiamo ignorarli. Meno che meno quelli che attestano i parametri, le tendenze, i movimenti demografici. Meno ancora in un tempo come il nostro che quei parametri, tendenze e movimenti minaccia da vicino. Alla fine del 2023 l’Ue aveva 449,3 milioni di abitanti distribuiti tra 27 stati: 5,4 milioni di abitanti più di quanti ne aveva nel 2016, sette anni prima, pur se nel frattempo le nascite annue erano scese da 4,38 milioni a 3,67 milioni, con una perdita secca di 710 mila nascite, alla considerevole media di oltre centomila nati in meno all’anno. Inutile aggiungere che, nel frattempo, a colmare il crescente divario tra nati e morti ci pensava il movimento migratorio. Che però, ed ecco il punto, non riusciva a incidere sulla fecondità, tant’è che mentre nel 2016 – anno di un modestissimo picco – si avevano nell’Ue 1,57 figli in media per donna, nel 2023 se ne avevano 1,38: il tasso di fecondità aveva perso 0,19 figli in media per donna (non ci si lasci ingannare dallo zero virgola: sono 190 mila figli in meno ogni milione di donne), era cioè passato da negativo (per aversi una popolazione stazionaria in assenza di movimenti migratori quel tasso dovrebbe aggirarsi tra 2 e 2,1 figli per donna) a molto negativo.
Gli immigrati che aumentano frenano se proprio non annullano la diminuzione della popolazione quando addirittura non contribuiscono ad aumentarla, ma sembrano accompagnare senza colpo ferire l’inossidabile discesa della fecondità, del numero medio di figli per donna. Chi pensasse che allora possiamo dormire sonni tranquilli senza dannarci troppo, visto che tanto gli abitanti subiscono minime oscillazioni, e semmai in più, sbaglierebbe: una popolazione che rimane pressappoco stazionaria mentre diminuiscono natalità e fecondità è una popolazione in cui non fanno che aumentare gli anziani e diminuire bambini, ragazzi e giovani, insomma una popolazione destinata a un inesorabile declino dopo un periodo più o meno lungo di un fittizio (e innaturale) equilibrio.
Trattasi di problema al quale non sfugge nessun paese dell’Unione europea, dell’Europa, dell’America del nord, dell’occidente: il tasso di fecondità non fa che diminuire nonostante l’aumento a sua volta ininterrotto dei migranti dagli altri paesi, che dovrebbero spingerlo in su.
Il quadro è chiaro: l’Europa e l’occidente sono nel pieno di un periodo di bassa fecondità e natalità che minaccia di durare a lungo, molto a lungo, anche in conseguenza del deterioramento che le troppo poche nascite producono dei parametri strutturali di vitalità della popolazione (uno su tutti: la proporzione delle donne in età feconda sul totale delle donne, che non fa che ridursi, riducendo al contempo la potenzialità riproduttiva della popolazione).
Non solo: il quadro è chiaro anche nelle sue due più decisive implicazioni. La prima: il numero medio di figli per donna (tasso di fecondità) è diminuito significativamente in tutti i paesi dell’Unione europea, indipendentemente dalle politiche di sostegno alle famiglie e alla natalità messe in atto. La seconda: non si può contare che in modesta misura sul movimento migratorio per incrementare un tasso di fecondità sceso a livello europeo sotto gli 1,4 figli per donna: valore che in assenza degli immigrati comporterebbe una verticale perdita di abitanti nello stretto giro di alcuni decenni.
In relazione alla prima implicazione balza agli occhi che le perdite maggiori della fecondità si riscontrano nei paesi in cui le politiche di sostegno alla natalità sono in vigore da più tempo e sono le più avanzate possibili. Dunque sono controproducenti? No, ma hanno già dato. Hanno fatto quel che potevano fare, e non è stato poco, ma ora non funzionano più, sulle nuove generazioni nel pieno della fertilità e della vita adulta hanno una presa minima – quando pure ne hanno una.
Questa non è una supposizione, una congettura; questo è un fatto, ed è il fatto più decisivo tra tutti perché ci dice che le politiche della natalità che hanno funzionato per i genitori non funzionano più per i figli. Si può certo insistere su queste politiche (e il panorama delle misure messe in atto, considerando l’insieme dei paesi a questo riguardo più virtuosi, non ne lascia fuori neppure una), ma senza più aspettarsi che siano capaci di risolvere o attenuare il problema in modo significativo: ci si metta il cuore in pace, non lo sono. Non in questa fase storica, non nei prossimi anni – sperando che gli anni, cosa tutt’altro che impossibile, non diventino decenni. In relazione alla seconda implicazione: i migranti in entrata apportano abitanti alla popolazione di un paese, questo sì, ma possono incidere relativamente poco sul tasso di fecondità. Si prenda l’Italia, il cui tasso di fecondità è sceso sotto gli 1,2 figli in media per donna nel 2024 in virtù di tassi fecondità attorno a 1,1 figli delle donne di cittadinanza italiana e di 1,9 figli delle donne di cittadinanza straniera, che rappresentano poco più del 10 per cento delle donne in età fertile residenti in Italia. Del resto, gli stranieri in Italia non hanno fatto che aumentare, la fecondità non ha fatto che diminuire. Regola aurea che non risparmia pressoché alcun paese europeo a forte immigrazione dall’estero.
Così stanno le cose, e chi pensa che tutto si risolva sol che lo si voglia, sol che governi e classi dirigenti si impegnino a fondo e coerentemente in una politica di ripresa della fecondità, è un formidabile ottimista. Il centro di tutto l’ambaradan demografico è uno solo: il vertiginoso venir meno dell’importanza dei figli nella vita delle persone. Tutte le altre sono questioni secondarie, non necessariamente prive di rilievo, sia chiaro, ma comunque e indiscutibilmente secondarie. Perché vertiginoso? Perché implica tre aspetti, tre versanti del “sentire” i figli non uno dei quali non abbia subito un vero e proprio tracollo segnatamente negli ultimi due decenni. Il sentire i figli come il compimento della propria vita; il sentire i figli come lascito e prosecuzione di sé nel tempo; il sentire i figli come contributo alla specie umana, alla sua integrità e continuazione del suo cammino sulla terra. Il clamoroso boom degli animali da compagnia, che nei supermercati occupano in prodotti per il loro mantenimento uno spazio che i bambini se lo sognano, può a ragione essere letto, tra le altre cose, come la compensazione per la disaffezione ai figli, non tanto, attenzione, per i figli che non ci sono quanto per i figli non voluti per disaffezione, appunto, per disamore, per indifferenza: un cane al posto del primo figlio; un gatto invece del secondo. E infatti negli animali da compagnia non ci sogneremmo, va da sé, di cercare il senso e la profondità dei figli: non sono il compimento della vita, non il nostro proseguimento quando non ci saremo più, non il nostro contributo alla specie homo alla quale apparteniamo. Non sostituiscono i figli, vanno a mano a mano a occupare il posto dell’idea, della concezione dei figli che ci ha accompagnati fino a mezzo secolo fa, e che da allora non ha fatto che indebolirsi per il sopravvenire sempre più imperioso e sovrastante di un sentimento della vita come limitata alle nostre personali vicissitudini e che in queste vicissitudini in un modo o nell’altro, in sconfitte e vittorie, si risolve. Concezione a sua volta figlia dell’incontro tra la possibilità di forgiare le proprie vicissitudini in tempi di progresso e benessere e il venir meno di una dimensione se non proprio religiosa almeno non così immediata e pragmatica della vita.
Questo è il problema con il quale è chiamata a misurarsi la demografia, ed è un problema con il quale mai essa avrebbe pensato di doversi misurare – né, del resto, mai si è dovuta misurare. Non sarà la demografia a risolvere un problema che ha conseguenze demografiche senza più essere demografico se non di straforo. Certo, si continuerà, com’è giusto e perfino necessario, a chiedere alle misure di sostegno alla natalità di riportare in auge per quant’è possibile se non il desiderio dei figli almeno la propensione ai figli. Ma la chiave non è più in quelle misure, per organiche che siano e per quanto comprensive della programmazione degli stessi flussi migratori. La chiave è più in profondità, più esistenziale e culturale e perfino biologica. L’organismo che va sotto il nome di popolazione sta reagendo all’aumento degli abitanti che dal secondo Dopoguerra è proseguito a ritmi travolgenti abbandonando ogni postura/vocazione natalista e lasciando, anzi, che la natalità scivoli nel sottoscala dei problemi della casa.
Ecco ciò che si deve sapere, ciò che la politica e le classi dirigenti devono sapere. Attrezzandosi di conseguenza, per non essere semplicemente preda del rovesciamento che è in atto e di quello che si annuncia dei ritmi che paiono demografici e che sono antropologici.
