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Rimorsi di Lega. Voglia di casa dopo la stagione Salvini

Zaia, il "vecchio Paglia", il flop di Vannacci

Maurizio Crippa

Non solo scontri elettorali, all'interno della Lega, in parole dette o sussurrate, affiora la nostalgia di un sogno perduto per avere in cambio di un potere fatto di vot, ma di pochi risultati. Come si torna a casa? Un'altra lunga traversata nel deserto? Si vedrà

"El can de tanti paroni more de fame” dice il non più Doge Zaia, perché viene sempre prima la lingua della spada. E aver cambiato paron, o insomma avere accettato un padrone, altro che un primus inter pares dentro alla Lega, oggi rischia di far morire di fame, anzi mangiati sulla propria terra. Nostalgia, un pentimento che non si può dire se non in dialetto, un accento di rimorso per il tradimento di se stessi avvenuto molto tempo fa, in momenti difficili, quando sembrava di annegare in laguna o tra le acque del dio Po (“ho visto periodi migliori e ne ho vissuti di peggiori. Bisogna fare come il bravo surfista che sa che dopo l’onda si può schiantare sullo scoglio e sta attento”, dice al Corriere). Ora i leghisti veri rischiano di morire un’altra volta di fame, col paron. Salvini che chiude Pontida giurando, un Alberto da Giussano al contrario, “mai i nostri figli a combattere in Ucraina”. Il “vecchio Paglia” che invece spiega il nome armeno di sua figlia, fratellanza dei popoli oppressi. In mezzo Vannacci, un ologramma al sugo del salvinismo. Il tonfo clamoroso in Toscana che prima o poi dovrà passare al bilancio politico e annuncia un declino imminente, ma che ha fatto ridere amaro tanti reduci delle sezioni. I vicesegretari, strana funzione, Sardone e il generale, che parlano solo di immigrazione e il povero Fontana, inteso l’Attilio, che si sgola e si danna per l’autonomia. In mezzo il tonfo, après lui le déluge, direbbe in lingua foresta. Ma “il generale, acclamato dai giovani, si prepara a scalare la Lega” esisteva solo nei giornali di sinistra, quelli che titolavano “Make Pontida Great Again” mentre Fontana rispondeva, in puro lombardo: “Col cazzo che vannaccizzano la Lega”. Pontida non diventerà grande di nuovo, almeno nel breve. Già una volta era stata una traversata nel fango del Pratone, con le ramazze.

Ma oltre la politica, oltre la  sfida di Zaia (“Tutto ha un inizio e una fine. Bisogna sempre mantenere la lucidità e vincere la tentazione di abbandonarsi al feticismo”), un Mai mulà è per sempre c’è quel sentimento. Un po’ reduci e un po’ barbari sognanti: da che parte è la via di casa? Tra un’intervista di Zaia e una del “vecchio Paglia”, che se n’è andato da vent’anni ma sul Corriere sembra l’unico leghista rimasto, e l’incazzatura dei giovani e vecchi militanti c’è indicibile e sotterraneo un rimorso non detto. Magari travestito di nostalgia per i bei tempi del Bossi che dormiva sul divano e beveva Coca-Cola scandalizzando il Berlusca. La Lega che andava a comandare. Poi la Lega era finita in una tragedia nordica travestita da pochade, tra Cerchio magico e diamanti africani, un Re Lear alla varesotta. Si poteva anche chiuderla, neh, oppure affidarsi al cambio di allenatore, al cambio di gioco e di campo di gioco. Via il nord persino dal nome, via l’Europa dei popoli (e anche dei danè, come sanno i governatori) e avanti col sovranismo, il blocco navale persino la remigration (ex föra di ball). Ora questa lunga sbandata lontani dalla propria terra, che ha portato al governo non una ma due anzi tre volte, ma con tre facce diverse e senza mai portare a casa nulla – né il federalismo né la cacciata dei negher né i pieni poteri né il sorpasso sui Fratelli né l’Europa for Putin sta producendo un ripensamento. Forse il ritorno all’idea e la malinconica consapevolezza di essersi persi per strada sulla via del ritorno (come si dirà Anabasi in bergamasco, in trevigiano?). I vecchi leghisti lo sanno, era stato un errore vendere l’anima: “I voti bisogna andare a prenderli, vale anche per me”, dice Zaia,  altro che modello Vannacci. A Pontida è stato Zaia a lanciare il modello Cdu-Csu, il partitone nazionale e quello che presidia la regione più produttiva. “In questo paese ci sono troppe differenze, quello è un modello che ha avuto successo in Germania”. E’ curioso che del modello Cdu-Csu si parlasse molto, ai tempi del Cav. vittorioso, ma era un’idea che piaceva più agli altri, al Celeste di Lombardia che sognava di tramutare il suo regno nella Baviera politica d’Italia. Invece a essere sordi e gelosi erano soprattutto loro, i leghisti. Adesso l’idea torna buona, ma forse non c’è tempo e sotto i piedi mancano le zolle del Pratone. Oppure bisogna aspettare una nuova tragedia shakespeariana con le felpe al posto delle spade, una nuova notte delle ramazze, quando Bobo Maroni s’intestò il salvataggio dei “Barbari sognanti”. Ora si sogna meno, c’è qualche rimorso.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"