Foto LaPresse

l'editoriale del direttore

Prudenza, demagogia, poco pil. Cosa ci dice la manovra sul governo

Claudio Cerasa

Perché la legge di bilancio è la sintesi perfetta dei pregi e dei difetti dell'esecutivo guidato da Giorgia Meloni

Una piccola spruzzata di prudenza, una fugace carezza al ceto medio, una leggera sforbiciata alle spese, un occhiolino strizzato alle imprese, una veloce spolverata di natalità, un assist al sindacato centrista, un accenno di attenzione alla produttività, un po’ di demagogia sulle pensioni, con il tutto poi presentato a tavola con una guarnizione di populismo conclamato, con il quale provare a dimostrare l’impossibile: che la destra di governo può essere tranquillamente chef di governo ma anche di lotta.

 

La manovra vidimata ieri in Consiglio dei ministri è lo specchio perfetto dell’identità del governo Meloni. Direzione giusta, proposte timide, qualche soldo buttato dalla finestra, qualche scalpo necessario da offrire a favore di telecamera. Lo scalpo in questione, ancora una volta, è quello che riguarda le banche, vera ossessione del governo Meloni, e nel caso specifico la scelta fatta sulle banche dai tre partiti di maggioranza è un classico magrittiano: ceci n’est pas un extra profittò. La tassa aggiuntiva sulle banche c’è, anche se la si nega, il principio di aggressione a un privato c’è, anche se lo si nega, la trasformazione di un profitto eccessivo in un veicolo di immoralità c’è, anche se la si nega, e il principio che viene affermato è più o meno questo. Alle banche viene chiesto un contributo alla manovra. Il contributo è pari a un aumento di due punti dell’Irap. A questo vengono aggiunti alcuni tecnicismi, come i limiti al riporto delle perdite fiscali e nuove regole sulla deducibilità dei crediti deteriorati. E a questo infine viene sommato un provvedimento ulteriore. Un anno fa, il governo disse alle banche: non vi tasso a condizione che accantoniate i vostri utili nelle vostre riserve, in modo da favorire il credito alle imprese. Oggi invece dice: vi invitiamo in modo imperativo a fare uscire i soldi che avete accantonato dalle vostre riserve e dal momento in cui usciranno i soldi accantonati, scatterà un’imposta del 27,5 per cento. Stima del gettito atteso: circa 4 miliardi nel primo biennio. Risultato dell’operazione: complimenti al governo dalla sinistra più estremista (il partito di Ilaria Salis e Nicola Fratoianni ha incensato di complimenti il governo).

 

Nel mondo meloniano, ormai lo abbiamo capito, il populismo funziona come funzionano i crateri dei vulcani a bassa attività quando il cratere principale viene tappato. In assenza di uno sfogo centrale, il magma scorre dai crateri più piccoli, e se il magma si ingrossa quando esce dai crateri più piccoli fa molto rumore. Il populismo, nella stagione del melonismo, funziona così: non si può più essere populisti sui grandi temi, perché il realismo di governo impone di essere prudenti in economia, prudenti con l’Europa, prudenti sulle pensioni, prudenti sull’immigrazione, ma ogni tanto qualche lapillo deve uscire fuori, per provare a dimostrare di essere sempre gli stessi, e quale migliore lapillo dello schiaffo alle banche brutte, sporche e cattive? La guarnizione, sulla manovra, è quello che è. I soldi inutilmente spesi per impedire l’aumento automatico dell’età pensionabile ci sono (3,41 miliardi di euro in tre anni, più o meno quello che si ricaverà dalle tasse non tasse alle banche). Ma al fondo la manovra presentata ieri da Giorgetti e Meloni è lo specchio perfetto di quello che  il governo è stato finora in questi anni in economia: concentrazione massima sulla cultura della prudenza (e portare il deficit sotto il 3 per cento anticipando di un anno l’uscita dalla procedura di infrazione è un ottimo risultato), disinteresse pressoché totale per la cultura d’impresa (gli imprenditori avevano chiesto 8 miliardi all’anno non in sussidi ma in incentivi, il governo gliene darà la metà), creatività zero per ragionare su misure a favore della crescita (per quello ci pensa il Pnrr, fino a che c’è), tentativo di accontentare tutti attraverso la pratica dello scontentare un pochino tutti (Meloni ieri ha tenuto a far sapere nella sua fugacissima conferenza stampa di aver agito dopo aver ascoltato tutte le parti, tutti i sindacati, tutti i rappresentanti delle varie categorie: non concertazione, ma consultazione) e mano tesa verso il sindacato con cui Meloni ha costruito un rapporto speciale (il taglio dal 5 all’1 per cento della tassazione dei premi di produttività è una delle richieste della Cisl). Il populismo nella stagione del melonismo funziona così: si usa la propaganda per fare titolo, per dimostrare di essere sempre gli stessi, e lo si fa spesso per provare a nascondere ciò che si è diventati, ovvero una destra che prometteva manovre espansive e che oggi si ritrova a essere a ogni legge di Bilancio la carta carbone dei governi dell’austerità. Il condimento è quello che è, e in una stagione in cui la vera manovra è quella che passa per il Pnrr in fondo è difficile avere manovre che eccitino gli entusiasmi, ma in attesa di scoprire quando il governo farà una mossa pro pil intanto ci si può accontentare di avere una legge di Bilancio che banche a parte, è destinata a non passare alla storia, confermando una vecchia e formidabile teoria della politica del nostro paese: meno una manovra fa titolo, meglio è per l’Italia.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.