Paolo Gentiloni con Luciano Capone sul palco della Festa dell'Ottimismo (foto Priscilla Ruggiero)

la festa dell'ottimismo

La credibilità che manca al Pd. Dialogo con Paolo Gentiloni

Difesa comune e Ucraina, è su questi due punti cruciali che si deciderà il futuro dell’Italia e dell’Ue. Ed è ora che il Pd ne prenda atto senza restare ostaggio del “campo largo”

Abbiamo incontrato Paolo Gentiloni sabato scorso, alla festa del Foglio. Ne è venuta fuori una conversazione interessante sul futuro dell’Europa, sui confini delle democrazie, sui problemi dell’Italia e sui deficit del Pd. Questo è il dialogo con Luciano Capone.

    


  

Luciano Capone: Già presidente del Consiglio e commissario europeo. Partirei dai temi europei. Come vede l’Europa in questa fase? Diciamo è molto schiacciata da blocchi. Gli Stati Uniti con Trump, la Cina e la Russia. Sembra il classico vaso di creta in mezzo a vasi di ferro. L’Europa mostra segnali di capacità di resistenza, di dare risposte nuove o si è un po’ impallata?

Paolo Gentiloni: E’ sempre un piacere essere qui alla Festa dell’ottimismo a Palazzo Vecchio. Partirei da questo. Il cancelliere tedesco Merz quindici giorni fa ha detto: “Non siamo in guerra, ma non siamo neppure in pace”. E questa frase, secondo me, riassume bene il contesto in cui ci troviamo. Poi lo possiamo spezzettare tra mille episodi di test della nostra sicurezza, della nostra unità da parte di minacce esterne più o meno riconducibili alla Russia di Putin. Però questa condizione un po’ grigia, non pace, non guerra, è una condizione completamente nuova che dovrebbe, secondo me, spingerci, piuttosto che a moltiplicare le lagne sull’Unione europea, a capire che questa frontiera, la frontiera dell’Europa, diventerà nei prossimi anni sempre più la frontiera della politica. Attraversa tutti gli schieramenti, chi è per dare forza all’Europa, chi è per indebolirla da dentro. Non è un tema di centrodestra/centrosinistra, è un tema molto trasversale, ma sarà la questione dei prossimi anni. Quindi non va bene chi pensa di metterla un po’ di lato – “vabbè è un tema di politica estera” – come fosse l’indipendenza del Sahara occidentale. Da che cosa pensi, da che cosa vuoi fare sull’Unione europea, da quanto sostieni l’Unione europea in questo momento dipenderà – scusate se uso parole forti – la prospettiva di essere liberi e forti nel corso dei prossimi anni. Se sei o non sei dalla parte dell’Europa. Il confine sarà sempre più questo anche per noi in Italia.

 

L.C.: Mi corregga se sbaglio. Sul recente voto di sfiducia alla Commissione europea, tra i partiti di sinistra, l’unico che ha votato la mozione di sfiducia della destra dei cosiddetti patrioti è un partito italiano, il Movimento 5 stelle, che è in un’alleanza ormai consolidata con il Partito democratico. Questo è un problema secondario, perché comunque riguarda questioni europee e quelle italiane sono diverse, o c’è bisogno di un chiarimento su questo?

P.G.: Naturalmente c’è bisogno di un chiarimento, ma non è un chiarimento sul campo largo o campo non largo perché riguarda tutti gli schieramenti politici. E in che misura questa consapevolezza esiste? Il Parlamento europeo, che è un parlamento particolare, riflette benissimo questa situazione. E’ la seconda volta in tre settimane che ci sono mozioni di sfiducia nei confronti della presidente della Commissione. La presidente forse non è popolarissima, soprattutto tra i suoi commissari, perché si dice che è molto accentratrice, però alla fine rappresenta l’Unione europea. E se foste andati per le strade di Budapest, non adesso, ma qualche mese fa, avreste visto i manifesti con Ursula von der Leyen travestita da gerarca nazista. Quella è la discriminante tra chi vuole l’Europa, la libertà, i diritti e chi non li vuole. Non se von der Leyen è più o meno accentratrice. Ma il Parlamento europeo plasticamente ha un pezzo di estrema destra ormai molto consistente e un pezzo di estrema sinistra che fanno delle mozioni e se le votano spesso l’uno con l’altro. Prima citavi i 5 stelle, ma credo che anche Vannacci le abbia votate entrambe, per fare un esempio dall’altra parte. Quindi è a rinforzo di quello che dicevo prima. La discriminante alla fine è lì, e quella discriminante si giocherà su due parole, Difesa comune e Ucraina. E le due cose ovviamente sono molto collegate. Ne vogliamo parlare con la nostra opinione pubblica? Vogliamo parlarne con i nostri cittadini? Perché richiede delle scelte, perché Kyiv è più vicina a Milano di Atene, non stiamo parlando di una guerra nell’emisfero australe, stiamo parlando di una guerra ai confini dell’Europa, vicino al nostro paese. E questa guerra, se finisce in un modo o finisce nell’altro, deciderà le sorti del nostro futuro. E quindi io credo che mettere questo al centro anche delle discussioni politiche sia sempre più rilevante, dirimente. Non possiamo considerarlo un appendice di politica estera per esperti. Difesa e Ucraina sono il cuore delle scelte politiche dei prossimi anni.

 

L.C.: Prima c’era il commissario Raffaele Fitto che diceva che l’Est europeo, la Finlandia e i paesi baltici sono i nostri confini europei. Però non c’è, mi sembra, questa piena consapevolezza in Europa, cioè da questa parte, l’ex Europa occidentale, c’è quasi l’idea che questo Est sia arrivato dopo, che non sia proprio Europa come come la nostra. Sì, loro hanno un rischio maggiore, però perché dovremmo pagare noi? In questa legge di Bilancio che è in discussione il governo prevede di aumentare un po’ le spese in Difesa e militari, ma il ministro Giorgetti è molto cauto anche su questo fronte, ci sono i vincoli di bilancio, il costo del debito. L’opposizione ha presentato un documento comune in cui punta molto sulla spesa su tanti fronti, ma vuole fare austerity solo sulle spese militari. E’ un problema delle forze politiche, ma forse anche del senso comune, delle persone che non percepiscono questo rischio per la sicurezza e per la democrazia europea.

P.G.: Certo, è una cosa di cui dobbiamo discutere con i nostri concittadini, con gli elettori, sapendo che l’equazione è un po’ più complicata di “l’Italia aumenta la sua quota di spese militari”. Perché io ero ministro degli Esteri nel 2014 quando prendemmo l’impegno di portare al 2 per cento del pil le spese militari, undici anni fa, e in undici anni onestamente non ci siamo arrivati. Poi negli ultimi mesi abbiamo fatto qualche aggiustamento contabile mettendoci le pensioni dei pompieri e siamo arrivati forse a questo 2 per cento, ma nelle statistiche ufficiali non ci siamo. Quindi non immaginiamo che quel vertice dell’Aia, in cui l’obiettivo principale era tenere il presidente Trump a bordo sul tema dell’Ucraina, e in cui quindi sono state spese parole e presi impegni molto rilevanti, di per sé cambi le cose. E se le cambiasse in modo automatico solo aumentando le spese militari di ciascun paese, io non sarei contrario, ma non risolverebbe i nostri problemi. Qualcuno di voi che ha più di 50 anni ricorderà un paese che si chiamava Cecoslovacchia che si è poi divisa tra Repubblica Ceca e Slovacchia. I due paesi hanno dei sistemi di carri armati incompatibili tra loro. Cioè negli ultimi 20-30 anni la divisione della Cecoslovacchia ha prodotto dei sistemi militari diversi, non compatibili. Quindi il punto è che per invertire la tendenza di ciascun paese a farsi la propria Difesa, siccome il procurement militare è una cosa molto insediata e molto rilevante, servono difesa europea, regole comuni e fondi comuni. Sono stati fatti dei piccoli passi in questa direzione: c’è un fondo di 150 miliardi di prestiti. Non è molto onestamente, penso che se ne debbano fare molti di più e vedo una timidezza imbarazzante anche da parte delle autorità italiane, che forse non credono del tutto a una difesa comune integrata, nel chiedere che per questa difesa integrata ci siano dei finanziamenti comuni. Noi abbiamo rotto un po’ il muro degli Eurobond, dei finanziamenti comuni in seguito alla pandemia, per l’emergenza sanitaria, per il rilancio dell’economia dei paesi. Ma su che cosa potremmo di nuovo romperla se non sulla difesa dell’indipendenza dell’Europa, dei suoi valori e dei suoi confini? Lasciamo che un paese, la Germania, spenderà nei prossimi dieci anni mezzo trilione, cioè 500 miliardi, 50 all’anno, per rafforzare la propria Difesa. Dice il cancelliere Merz: “Avremo l’esercito più forte d’Europa”. A me verrebbe da dire che l’esercito più forte dell’Europa ce l’ha l’Ucraina, ma di gran lunga. Negli anni 70-80 andava forte la legge di Moore secondo cui i computer ogni 18 mesi raddoppiavano la loro potenza di calcolo. Oggi gli ucraini cambiano l’evoluzione tecnologica dei loro droni ogni due mesi, ogni sessanta giorni hanno una tecnologia di droni più forte. Però la Germania che dice “avremo l’esercito più forte d’Europa” a me onestamente fa piacere a condizione – come si domandava Thomas Mann – che stiamo parlando di una Germania europea e non di un’Europa tedesca. E per sciogliere questo interrogativo, bisognerebbe che un paio di paesi che talvolta si guardano in cagnesco, come la Francia e l’Italia, avessero la forza di fare fronte comune. Non credo che la Germania potrebbe opporsi a un finanziamento europeo comune della Difesa. I paesi baltici non sarebbero contrari e neanche i paesi scandinavi, tutti paesi di solito riluttanti. 

 

L.C.: Anche perché c’è questa asimmetria che i paesi che hanno debito basso, come quelli dell’Est, hanno un rischio molto elevato di essere invasi per primi e i paesi che hanno un rischio più basso come i nostri, hanno un debito più elevato. Quindi l’idea di avere un debito comune risolverebbe questa asimmetria tra rischi e capacità di finanziamento. Non c’è tema più importante della difesa.

P.G.: Sì, non c’è dubbio, anche se qualche paese come la Lettonia non è perfetto dal punto di vista degli equilibri di bilancio, però il quadro è così. Occhio che questo quadro sta cambiando, nel senso che, in parte grazie al Next Generation Eu, cioè la grande operazione di finanziamento comune, quei paesi – come Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – che qualcuno definiva “Pigs”, con un acronimo abbastanza orrendo in inglese,  adesso volano. O almeno una parte dei pigs vola, sospendiamo il giudizio sull’Italia.

 

L.C.: Secondo me, lei da ex commissario europeo agli Affari economici non può che promuovere la politica di bilancio di Giorgetti: sta rispettando l’indicatore della spesa netta, sta riducendo il deficit in maniera anche migliore delle aspettative, lo spread scende, c’è una certa solidità riconosciuta da agenzie di rating, mercati e Commissione Europea. Però, mi pare, c’è un problema di economia reale sul lato dell’industria: il settore automotive, la crisi dell’Ilva, dove questo governo ha dei problemi seri, la trasformazione 5.0, gli incentivi che non funzionano. Mi sembra che l’opposizione sia molto concentrata sul bilancio, sullo spendere di più, sull’austerity, che è un vincolo politico economico reale, che non  alla critica della politica industriale di questo governo.

P.G.: Ma io penso che la prudenza nei conti è senz’altro una cosa da apprezzare e fa parte di alcune scelte mainstream che ha fatto l’attuale governo di centrodestra in politica estera. Prima abbiamo parlato dell’Ucraina, ma credo anche le opposizioni farebbero bene a valorizzare la serietà dei conti. Non c’è da vergognarsi di dire che è positivo se l’Italia ha dei conti pubblici in ordine, però c’è un’altra parte di questo discorso e cioè che la media della crescita europea è un po’ più del doppio della crescita italiana. Noi cresciamo, dice il governo, di 0,5 per cento. L’Unione europea crescerà di 1,2 per cento. Siamo meno della metà della media europea e attenzione, questa media europea è influenzata dal fatto che le due maggiori economie, Germania e Francia, sono messe molto male, perché se la Germania invece di zero crescesse l’1,2, il ritardo italiano sarebbe ancora più evidente. Vi ricordate la parodia che Corrado Guzzanti faceva di Prodi? “Siamo fermi. Noi siamo fermi. Fermi”. E il fatto di essere fermi è particolarmente grave su due cose. Per prima cosa, sulle politiche di sostegno all’innovazione. I piagnistei sull’intelligenza artificiale sono inutili, credo che lascino il tempo che trovano, nel senso che non recupereremo molto e molto rapidamente. Tuttavia non credo che Henry Ford fosse giapponese o tedesco e ciò nonostante l’industria dell’auto in Germania e in Giappone ha avuto degli sviluppi enormi. Quindi noi possiamo incorporare l’intelligenza artificiale nelle nostre imprese senza soffrire il ritardo. Come seconda cosa, sul potere d’acquisto. Oggi lo spiega molto bene Federico Fubini sul Corriere della Sera: il potere d’acquisto e quindi il livello degli stipendi e dei salari dovrebbe essere centrale per il nostro governo e dovrebbe essere anche centrale per le forze di opposizione, per la sinistra, per i sindacati. Questa dovrebbe essere la questione fondamentale oggi: come recuperiamo potere d’acquisto per gli stipendi e per i salari, senza i quali in un mondo in cui l’export rallenterà o abbiamo i consumi interni che possono recuperare oppure l’economia italiana, nonostante ci siamo vantati per due o tre anni dopo la pandemia di essere meglio degli altri, andrà sempre peggio. Dobbiamo muoverci sul sostegno alle imprese e sul sostegno al potere d’acquisto degli stipendi e dei salari.

 

L.C.: Sulle regionali se tutto va bene il centrosinistra vincerà in tre regioni, quelle che aveva già prima. Il presidente De Luca prima segnalava che, in questo accordo fatto col centrosinistra, il Pd ha ceduto al Movimento 5 stelle la Campania che era la regione più grande e più importante. Alla fine di questa tornata elettorale, se tutto va bene, il Pd perderà il governo di una regione su tre. E’ andato proprio bene questo accordo? Funziona bene questa alleanza o c’è qualcosa che non va?

P.G.: Ma io sulle sulle regionali mi limito a dire “forza Eugenio Giani” e che vinca le elezioni, merita di rivincere e credo che abbia l’abbraccio della maggioranza dei toscani, anche se non tutti. E se siamo più forti o più deboli, onestamente non dipenderà dal pallottoliere delle regioni, dipenderà dalla credibilità, dalla capacità di costruire un’alternativa di governo credibile per il centrosinistra, e su questo c’è molto molto lavoro da fare ancora. Moltissimo.

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