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il commento

La “competenza” fredda e violenta di Albanese contro chi ha il corpo segnato dalla storia

Anita Likmeta

La cittadinanza onoraria conferita alla relatrice Onu è un atto che premia non una carriera, ma una postura culturale che esclude il testimone e svuota la memoria. Così l’Italia smantella la coscienza nel nome dell’analisi fredda

C’è un punto in cui il rigore analitico smette di essere strumento di conoscenza e diventa esercizio di esclusione. E’ sottile, ma è lì che la lucidità si converte in pulizia semantica, dove ogni parola che vibra di storia viene trattata come un errore di metodo, un inciampo della logica. E’ in quel punto che si è posizionata Francesca Albanese, non con un incidente linguistico, ma con una dichiarazione teorica deliberata. Alla sola evocazione del nome di Liliana Segre, ha lasciato uno studio televisivo. E non si è trattato di un gesto di dissenso: è stato un atto di rigetto. Lo ha spiegato lei stessa, con una freddezza che non ha bisogno di interpretazioni. Ha detto che Segre “non è lucida”, che è “condizionata emotivamente”, che “non ha competenza sul tema Gaza”, che “è diventata una pietra di inciampo della logica”, e infine ha dichiarato che “se si ha una malattia, non ci si fa diagnosticare da un sopravvissuto, ma da un oncologo”. La Shoah come malattia. La testimonianza come disturbo cognitivo. La memoria come ostacolo razionale. Una costruzione perfetta, fredda, chirurgica. E allo stesso tempo, un tentativo violentissimo di espellere il testimone dal campo della parola legittima.

Non è un’opinione, è un sistema. E’ un’intera visione del sapere: neutrale, disincarnato, liberato dal peso dell’esperienza, in cui solo chi non ha memoria può pretendere autorità. Chi ha vissuto, chi ha visto, chi ha attraversato l’abisso, deve tacere perché il trauma “offusca”. La lucidità, in questa logica, è proprietà di chi non ha sangue nei pensieri. Chi ha sofferto è sospetto. Questo è il nuovo ordine: chi ha il corpo segnato dalla storia viene considerato inidoneo al dibattito. Ma dietro questa apparente compostezza analitica si nasconde il volto più sofisticato della rimozione. Un’operazione di smantellamento simbolico che non si compie nel nome della negazione, ma della professionalità. Francesca Albanese non l’autrice di questo processo, ne è il sintomo. E’ la funzione di un’Italia che sta cercando di separarsi dalla propria vergogna ereditata. E lo sta facendo con metodo, con ordine, con quella calma apparente che sempre precede la regressione. La cittadinanza onoraria che diverse città italiane hanno cominciato a conferirle – l’ultima, Bologna – non è un riconoscimento, è una dichiarazione. E’ la scelta, lucida e consapevole, di premiare una figura che ha indicato Liliana Segre non come testimone ma come problema logico. Ed è proprio questo che rende tutto intollerabile. Perché non si sta premiando una carriera, si sta premiando una postura. Bologna – città della memoria, della strage, della resistenza – oggi onora chi ha scelto di abbandonare il confronto alla sola presenza di una testimone della Shoah. Non c’è solo incoerenza. C’è un’umiliazione profonda, non solo verso la senatrice Segre, ma verso la propria stessa storia, verso i propri morti, verso le pietre d’inciampo che attraversano le strade che oggi vengono simbolicamente rovesciate. Questo paese non ha più nemmeno il senso della vergogna e sta disimparando il significato del rispetto. Si muove come se la coscienza fosse un bagaglio superfluo, un’eredità da archiviare.

Il premio a Francesca Albanese non è un atto isolato, è una tappa del processo di desensibilizzazione collettiva in atto. E’ un’Italia che non vuole più inciampare, che vuole pavimenti lisci, frasi levigate. analisi disinfettate. Un’Italia che vuole liberarsi del testimone perché il testimone chiede conto. Ma Liliana Segre non è soltanto una sopravvissuta, una testimone della Shoah. La senatrice Segre è una figura che ha saputo fare della propria esperienza un atto di riflessione civile, un esempio di equilibrio morale, una parola pubblica mai disgiunta dalla misura. Se c’è un’“oncologa” della Storia, per usare la sciatteria concettuale di Albanese, è Segre. Chi, in nome dell’expertise, svuota la realtà fino a renderla irriconoscibile. E io questo meccanismo lo riconosco. Vengo da un paese, l’Albania, dove il fascismo ha lasciato tracce nel giardino dei miei nonni, tra gli ulivi. Dove il comunismo ha cancellato le biografie, ha tolto parola ai corpi, ha azzerato la memoria. E so, per averlo visto e vissuto, che i regimi non hanno bisogno di grida, gli basta il silenzio degli altri. Il potere non comincia con l’imposizione, comincia con la selezione di chi può parlare, con la costruzione di un sapere che non tollera le cicatrici, con il disprezzo dell’esperienza. I Khmer Rossi non volevano adulti. Volevano bambini, vuoti, senza memoria. Quello che vedo accadere in Italia, oggi, non è diverso nel principio: la memoria come malattia, il testimone come ostacolo, il sopravvissuto come interferenza. E intanto, la cittadinanza si conferisce a chi indica quella voce come un problema. L’amministrazione di Bologna – come molte altre – non sta celebrando una donna, sta legittimando una visione. E se neanche davanti a questo siamo capaci di dire basta, allora abbiamo già accettato tutto. Compresa l’idea che la democrazia possa esistere senza coscienza, senza carne, senza memoria. Francesca Albanese non è il problema. E’ il volto levigato della dimenticanza. Ed è per questo che viene premiata. 

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