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l'analisi

L'Italia e Gaza: una storia triste

Andrea Graziosi

Perché quel che succede ai palestinesi mobilita molto più di altre guerre urbane, come a Grozny o a Mariupol? Qualche risposta che riguarda il passato, la determinazione a essere “i buoni” e la sinistra

La grande ondata di manifestazioni a favore della popolazione di Gaza (ma anche propalestinesi, e persino filo Hamas) in Italia pone domande importanti e di grande interesse, alle quali non è facile rispondere. Prima qualche dato: la giornata nazionale del 3 ottobre e il corteo di Roma del 4 sono state le più grandi manifestazioni su questi temi in Italia (centinaia di migliaia di persone anche secondo la polizia). Nella mobilitazione dei giorni precedenti i numeri erano stati nell’ordine delle migliaia o delle poche decine di migliaia di persone, con un picco a Torino che si conferma – per ragioni su cui varrebbe la pena di riflettere e che hanno probabilmente a che fare con la straordinaria perdita di status della città rispetto ai tempi della Fiat – uno dei luoghi dove è più acuta la sofferenza per un declassamento che è anche italiano e più in generale del “mondo bianco”. Anche l’ondata del 2023-24, pur importante, aveva raggiunto dimensioni minori, e la stessa cosa vale per i picchi precedenti del 2009 e del 2014. L’Italia ha quindi ripetuto con due anni di ritardo l’esperienza statunitense e inglese, che avevano raggiunto la loro acme nell’autunno 2023, con centinaia di migliaia di manifestanti a Londra e nelle principali città americane.

Cosa spiega questa differente cronologia, come è possibile leggerla, e soprattutto cosa ci dicono queste manifestazioni, i loro partecipanti, la loro evoluzione e la loro natura su di noi, vale a dire sulla “nostra”– naturalmente molto composita – storia recente e la nostra situazione politica, culturale e psicologica? 

Provo a rispondere senza naturalmente ignorare le spiegazioni più ovvie e ripetute che contano eccome, la prima e la terza direi più della seconda che comunque ha un suo peso. Non c’è dubbio infatti che molti si sono mobilitati per la sofferenza giustamente causata dalle immagini di civili che soffrono vicino a noi la crudeltà di una guerra apparentemente senza fine. A muovere tanti partecipanti è stata quindi anche l’indignazione, ma hanno certo contato la catastrofe comunicativa israeliana e l’efficace strategia comunicativa di Hamas e delle organizzazioni a essa vicine, nonché di quelle che da anni organizzavano in buona fede aiuti umanitari di cui naturalmente Hamas e le sue strutture profittavano, se non altro perché detenevano il potere. Un ruolo decisivo nel salto di scala finale lo ha infine avuto la decisione di Pd e Cgil di unirsi formalmente al movimento e di appoggiarlo in pieno, probabilmente l’unico caso di un partito già di governo, e quindi facente parte dell’establishment “occidentale” (se ancora si può dir così), che ha fatto una simile scelta.

Scavando più a fondo si trova direi il disagio, la preoccupazione, anche la paura per – e quindi la condivisibile protesta contro – il riemergere della guerra più dura e brutale, quella urbana, che coinvolge inevitabilmente la popolazione civile. Vale la pena di ripercorrerne le ultime tappe. Sappiamo che almeno nel XX secolo essa è una figlia della Seconda guerra mondiale, e in particolare di quella europea (anche se Nanchino o Hiroshima non vanno certo dimenticate): basti pensare alla distruzione di Varsavia, all’assedio di Leningrado, ai bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra e poi a quelli degli alleati sulla Germania ma anche sull’Italia, o alla battaglia di Berlino. L’Europa del 1945 era piena di città carbonizzate, di edifici sventrati a cannonate o rasi al suolo dagli aerei, e i civili morti si contavano a milioni. La battaglia di Budapest del 1956, con le sue poche migliaia di vittime, ne fu probabilmente l’ultimo caso “minore”. Dopo di essa si pensò che quella guerra disumana fosse scomparsa, anche se negli anni Ottanta essa riapparve in medio oriente, a Beirut come a Hama, distrutta nel 1982 dalle truppe di Assad senior, che uccisero decine di migliaia di persone.

Poco dopo però la guerra urbana riemerse anche in Europa, a Vukovar (1991) e con l’assedio di Sarajevo (1992-1996), dove morirono migliaia di persone; con la battaglia di Agdam occupata dagli armeni nell’estate del 1993; e poi soprattutto a Grozny, la capitale della Cecenia quasi rasa al suolo dai russi nel 1994-95, dove i civili morti furono già decine di migliaia senza che quasi nessuno protestasse (dopo il 2000 Putin ve ne avrebbe ucciso un numero forse superiore). Nel 2016-17 la guerra urbana tornò in medio oriente, a Mosul come a Raqqa, nel corso della campagna contro l’Isis, con migliaia di civili morti nella “riconquista” di ciascuna di queste città (ancora, senza alcuna protesta), e ha avuto un nuovo picco nel 2022 a Mariupol, dove le vittime civili dei russi sono state in poche settimane molte migliaia e probabilmente di più. 

La battaglia di Gaza va quindi vista su uno sfondo che è quello di una guerra le cui caratteristiche – in particolare il coinvolgimento diretto e brutale dei civili – fanno capire perché a molti essa possa apparire il male assoluto e quindi un “genocidio”. Che le parole cambino di significato, e anche lo capovolgano, specie e non solo per ragioni politiche (basti pensare al Partito repubblicano di Lincoln membro nel 1866 della Prima internazionale e a quello di oggi, o a quello democratico americano, un tempo controllato da razzisti bianchi) è cosa normale e irresistibile. Basta sapere che nel caso del genocidio si perderebbero però così sia il significato originario del termine che le ragioni per cui fu creato: non la strage di civili ma il colpire sistematicamente una categoria specifica di persone per eliminarla “in tutto o in parte”, una formulazione giuridica che già indirettamente proclama l’esistenza di tipi diversi di genocidio ma che certo non permette di equiparare il bombardamento di Dresda alla Shoah. 

E’ questo un problema di grande interesse ma non quello di cui voglio discutere, che è piuttosto perché proprio Gaza sia diventata in Italia il simbolo di questa guerra e (ma in subordine) perché anche tanti dei suoi intellettuali, che dovrebbero essere coscienti dell’importanza di usare categorie analitiche precise, abbiano accettato di definirla appunto un genocidio. Sono domande alle quali non ho una risposta sicura ma mi sembra che porle permetta di fare passi in avanti nella comprensione delle tradizioni, delle mentalità e delle forze ideologiche, ma anche “psichiche”, che influenzano la realtà in cui viviamo da qualche decennio e il modo in cui la vediamo nonché quello che vi vediamo.

Penso per esempio che la scelta di guardare a Gaza e non a Grozny o Mariupol si spieghi anche con il già ricordato, oggettivo declassamento del nostro mondo, un declassamento innegabile ma che fa male e che anche per questo non si vuole vedere. E si spiega anche con la paura. Se guardo a Gaza infatti posso sentirmi ancora in qualche modo “potente” e pensare di contare, anche se ovviamente non è vero come dimostra il peso di Donald Trump e di grandi paesi arabi che detestano Hamas nel determinare l’esito del conflitto di un’area che meno di cento anni fa era sotto controllo anglo-francese. Se guardo alla Russia e dietro di essa a Pechino, capisco subito che i paesi europei contano poco, e conteranno di più solo se prenderanno atto di una realtà sgradevolissima, che è quella della guerra e della sua possibilità, e quindi accetteranno la necessità di un riarmo anche nucleare. E sarò costretto ad ammettere che comunque nei confronti della Cina – con cui però per fortuna nessun conflitto è necessario e con la quale non è in teoria difficile trovare accordi e avere buoni rapporti – e presto dell’India, i paesi europei si trovano – allo stato – in condizioni di oggettiva e notevole inferiorità.

Di più: se guardo a Gaza posso ancora illudermi di poter andare ad aiutare i più deboli in difficoltà, che è uno dei temi essenziali della parte “migliore” di un’Europa conquistatrice fin dai decenni successivi alla “scoperta” delle Americhe, coi suoi gesuiti il cui esempio è stato seguito dai tanti intellettuali e rappresentanti delle classi superiori “andati verso il popolo” o impegnatisi nel portare beneficio a chi stava “innocentemente” peggio di loro. Posso cioè ancora sentirmi superiore e buono, che è la combinazione ideale per far star bene qualunque coscienza che si contenta. 

Ciò aiuta a capire i perché del successo delle manifestazioni per Gaza, ma non basta. In Inghilterra come a New York e oggi da noi, questo successo è dovuto anche e non in parte minore, all’energia e alla mobilitazione di comunità immigrate. Le proteste per Gaza ci portano cioè a vedere un aspetto della grande faglia tra nativi e immigrati da paesi e culture sempre più “diversi” che orienta la politica contemporanea delle società moderne, e che preferiremmo non ci fosse o almeno non vedere. Almeno indirettamente esse ci mettono quindi di fronte a un’altra realtà che preferiremmo non vedere, quella costituita dall’essere già le nostre (e sempre più anche le altre) delle società non vitali perché incapaci di riprodursi. 
Pensando ai soli nativi sembra opportuno distinguere tra vecchi e giovani, che è un’altra delle grandi faglie che caratterizzano le nostre società (quella tra uomini e donne sembra invece meno direttamente toccata). Posto che naturalmente la stragrande maggioranza degli italiani, ivi compresi quelli di una certa età, non solo non si è mobilitata ma è sempre più distante dalla politica e “delusa” da essa (o meglio dal fatto che in assenza o quasi di progresso non può più ricevere dalla politica quello che per una straordinaria stagione si era abituata a ricevere), non vi è dubbio che in Italia esiste – dato il suo lungo 1968, terminato solo alla fine degli anni Settanta – un ampio strato politicizzato dotato di una cultura di un certo tipo. Questa cultura vive non solo dentro di esso, ma è stata trasmessa nel tempo a gruppi successivi di giovani, da quelli del 1977 a quelli della Pantera, ecc.

Ad avere la testa rivolta a un passato che – va riconosciuto – era migliore anche perché permetteva speranze ancorché irrealistiche e ingannatrici non sono quindi solo i vecchi che quei tempi hanno vissuto ma anche generazioni, certo sempre meno vaste, di giovani che ne hanno ereditato mentalità, idee, cultura e slogan. Si va dal Giovanni Paolo II “fascista di merda” della statua imbrattata nei giorni scorsi alla ben più pericolosa, anche perché meno volgare, sostituzione dell’ideale di un’umanità affratellata con quello di un mondo governato dalla lotta tra popoli, ciascuno dotato di una sua cultura e di un suo territorio. Si tratta di un’ideologia che accomuna anche storicamente parti della destra e della sinistra e che in Italia ha trionfato appunto negli anni Settanta, con lotte per il popolo vietnamita, irlandese, palestinese spesso diversamente sostenute dai militanti di entrambe. Abbiamo così da decenni a che fare con una sinistra che ha persino sposato l’autarchia con gli inni al chilometro zero, e che esalta ovunque indigeni che non sono mai tali e che quindi indirettamente – anche se non se ne rende conto – vorrebbe ricacciare chissà dove e al posto di chissà chi indoeuropei, bantù, arabi, turchi, immigrati di ieri e di oggi ecc.

Più in generale il passato sembra rappresentare per tutta la sinistra, anche quella ragionevole e moderata, sia il rifiuto di un presente che comprensibilmente non piace e non si vuole vedere sia un rifugio da esso. Anche se certo le ragioni sono tante, penso che questo aiuti a capire come è stato possibile che il centrosinistra abbia consegnato nelle mani di un corpo estraneo ideologico la leadership del partito, e poi abbia permesso che il partito stesso assumesse una posizione subalterna. Il problema non è naturalmente quello della presenza alle manifestazioni per Gaza, che erano legittime e giuste. Sarebbe però stato “naturale” convocarle su una piattaforma propria e più equilibrata, piuttosto che aderirvi cedendo l’egemonia culturale e politica a forze ostili, finendo col vedere persino De Caro inneggiare a una Palestina libera dal fiume al mare. Lo stesso discorso vale naturalmente per la Cgil, un tempo di Lama e Trentin. 

Questo subitaneo cedimento, che è culturale prima che politico, a un “wokismo” italiano persino più povero di quello anglo-americano anche perché meno innovativo e più ancorato alle ideologie del passato, spiega il ritardo dell’acme “propal” italiano rispetto a quello statunitense e inglese: è grazie a esso che la scala delle manifestazioni si è moltiplicata, come è naturale visto il peso delle tradizioni rappresentate da Pd e Cgil in Italia. Come la destra sembra aver capito fin troppo bene, tuttavia, questa scelta oltre a essere incosciente e autopunitiva rischia di avere conseguenze pesanti, sia in termini elettorali sia di spostamento dei ceti dirigenti del paese. Sarà il futuro a chiarirlo, ma già oggi, come pare si dica in FdI, “più cavalcano la protesta, più cresciamo”, e il tentativo di costruire la famosa gamba moderata a una coalizione che ha accettato una simile egemonia culturale sembra un’impresa sempre più difficile, malgrado le doti tattico-politiche di Renzi. 

Certo, hanno poi contato anche i social e il loro meccanismi di mobilitazione (che riguardano però un pubblico relativamente ristretto) e lo schiacciamento culturale di molti giovani e non su un presente che sembra non voler vedere il passato se non per giudicarlo in nome dei propri valori: un atteggiamento negativo perché cieco di fronte alla differenza, che pesa ma che riguarda anch’esso circoli limitati di cui non bisognerebbe essere succubi. E ha contato soprattutto l’antisemitismo, cioè l’antiebraismo, che è purtroppo da secoli una costante di grande rilievo dell’opinione culturale e popolare europea. La scala delle manifestazioni contro Israele, e la “naturalezza” con cui si è scelto di guardare a Gaza e non anche altrove dipendono e molto anche dalla popolarità dell’avversione agli ebrei, e temo che purtroppo molti si ritroveranno, quasi senza accorgersene e poi con amarezza, accanto e in mezzo ad ambienti che giustamente hanno sempre cercato di evitare.

L’acme del “propal” italiano sembra quindi confermare alcune ipotesi già credibili: il peso atipico degli anni Settanta, delle sue ideologie e dei suoi comportamenti nella nostra storia; la morte intellettuale (ma non morale) del nostro riformismo; la pochezza intellettuale e politico-tattica della leadership attuale del Pd; e quella del nostro “wokismo”, privo di originalità di pensiero. Tra le sue conseguenze ci potrebbe essere il ritrovarsi ad avere alimentato una nuova stagione di “antisemitismo” antiebraico e l’aumento delle probabilità di una nuova sconfitta elettorale dovuta – più che alla migrazione verso il centrodestra – alla perdita di credibilità e autorevolezza di una sinistra che non solo non ha più un centro, ma è culturalmente egemonizzata da idee e pratiche cui si può immaginare che molti italiani siano ostili. Naturalmente, visto che viviamo in un mondo privo di “regole”, una forte crisi potrebbe consegnare il potere anche a questa sinistra-sinistra – che una gamba centrista non può raddrizzare perché almeno per ora è chiaro a tutti chi ne ha l’egemonia, ed è l’egemonia la questione chiave – ma è lecito chiedersi a cosa porterebbe un suo governo.

Almeno per me la cosa forse più triste è vedere tanti giovani evidentemente animati da buone intenzioni seguire idee e idoli più che falsi concepiti per altri tempi e un altro mondo. Ne sono stato vittima anch’io nel 1969 e lo capii una decina d’anni dopo. Ne ebbi però completa consapevolezza solo negli anni Novanta quando negli archivi della polizia segreta zarista, nel fascicolo di un dirigente bolscevico di cui volevo scrivere la biografia, trovai l’elenco dei libri che il circolo dei rivoluzionari del liceo migliore di Kyiv leggeva alla vigilia della rivoluzione del 1905. Tranne due testi, che Lenin non aveva ancora scritto, erano gli stessi che leggevamo noi nel nostro liceo napoletano del 1968-69. Già noi eravamo quindi prigionieri del passato e leggevamo un presente diverso e in veloce cambiamento con categorie elaborate cento e più anni prima. Avevamo però almeno dalla nostra parte il sentimento, fugace ma fugacemente vero, della forza e della speranza. Oggi si è prigionieri di schemi ancora più invecchiati, e “aggiornati” in peggio dal trionfo ideologico del “populismo”, e soprattutto si è alle prese con un mondo nuovo molto più duro, che chiede a gran voce di essere analizzato per quello che è, perché è il solo modo di far fronte alle sue sfide, e viene invece rifiutato perché si intuisce che non può piacere e si sceglie quindi di non studiarlo. Ma farci i conti è l’unica, stretta via d’uscita. 

 

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