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Destini politici opposti

Ilaria Salis è salva, ma Eva Kaili si è arresa alla giustizia populista

Nicola Mirenzi

Per l'ex vicepresidente del Parlamento europeo, accusata di corruzione nello scandalo Qatargate, solo un parlamentare votò contro la revoca dell'immunità. Se fosse successo a Budapest, ci sarebbero le flotille scatenate sul Danubio. Invece accade a Bruxelles

A differenza di Ilaria Salis, salvata per un solo voto dall’accanimento ungherese grazie ai franchi tiratori del centrodestra, per Eva Kaili solo un parlamentare europeo votò contro la revoca dell’immunità, più due astenuti. Nessun altro dei seicentoventicinque deputati ebbe in animo il dubbio dell’innocenza, l’idea che non necessariamente un’accusa infamante come quella di corruzione nello scandalo Qatargate significhi colpevolezza. Alla quasi unanimità, si piegarono alle tesi accusatorie del magistrato belga Michel Claise, un uomo acceso dalla convinzione che la criminalità finanziaria abbia “ormai preso possesso del mondo” e bisogna far di tutto per debellarla, costi quel che costi.

 

Così eccole, Ilaria ed Eva: due parlamentari europee dai destini politici opposti. Una salvata, l’altra sommersa. Ma da una comune storia di soprusi giudiziari. La prima maltrattata nella cattivissima Ungheria. La seconda torturata, secondo Amnesty International, nel civilissimo Belgio. Solo che per la prima, Ilaria, è scattata ancora la rivolta morale contro le manette ai polsi e gli schiavettoni alle caviglie con cui la portarono davanti al tribunale di Budapest. Mentre per Eva – come scrivono Lodovica Bulian e Giuseppe Guastella nel loro racconto-inchiesta, “Il peccato di Eva” (FuoriScena) – prevalse il piacere di vedere cadere dall’alto della vicepresidenza del Parlamento europeo una donna brillante, con in più l’aggravante di essere bellissima.

 

A Salis hanno dato abiti malconci e sporchi dopo l’arresto. Mentre a Eva negarono anche la coperta. In una cella di isolamento al freddo, la luce accesa di giorno e di notte, il divieto di lavarsi benché avesse il ciclo, l’interrogatorio senza avvocato, il rifiuto di farle vedere la figlia di ventidue mesi per indurla a confessare, nonché infliggere a una bimba il trauma della brutale scomparsa improvvisa della madre (e anche dal padre, Francesco Giorgi, anche lui arrestato). 

 

Rieccole, Ilaria ed Eva: l’antifascista militante italiana, oggi protetta dalle formalità liberali borghesi che lei sogna di superare in nome del “comunismo” inteso come “principio etico che parla al cuore di tutti”, e la socialista democratica greca data in pasto alla piazza mediatica quale trofeo della lotta alla corruzione, come nei migliori processi popolari. Scrivono Bulian e Guastella: “Sul piano politico, non si può che definire pavido e indolente il comportamento del Parlamento europeo che, sventolando a fini populistici il vessillo della trasparenza, non ha saputo tutelare la dignità dell’istituzione e i diritti dei propri membri, dalla smaccata, tracotante e cinica invasione di campo di taluni inquirenti”. A tre anni dall’arresto, l’accusa di essere stata corrotta dal Qatar e dal Marocco rivolta a Kaili rimane un “teorema non dimostrato”. Mentre è certo che l’inchiesta giudiziaria si sia basata sulle prove raccolte dai servizi segreti (pratica illegale in Italia), interrogatori celebrati senza avvocato, e confessioni – rivela per la prima volta il libro – estorte sotto la minaccia di tenere in carcere la moglie e la figlia di Antonio Panzeri, il personaggio chiave di tutta l’inchiesta. Ex sindacalista Cgil ed ex europarlamentare di Articolo Uno, è lui l’uomo a cui viene ricondotta la montagna di soldi ritrovata nelle valigie che è finita sulle prime pagine di tutti i giornali europei.

 

Rischiava oltre quindici anni di carcere. In cambio dei nomi che ha fatto, ha concordato un anno di domiciliari, firmando un patto di pentimento. Ed è su questa confessione che i magistrati hanno sostanziato l’accusa a Eva Kaili (e al marito). Poco importa se quel che ha detto sia vero o falso. Al punto che si rimane increduli leggendo l’intercettazione di un alto inquirente, oggi agli atti dell’inchiesta, che dice: “Sappiamo bene che Panzeri mente”. Se fosse successo a Budapest, ci sarebbero le flotille scatenate sul Danubio. Invece accade a Bruxelles, e a chi vuoi che importi.

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