
Ansa
l'analisi
Nella sconfitta del centrosinistra nelle Marche c'entra anche la transizione economica incompiuta
Quando si perde due volte restando fuori dal governo per un decennio non basta guardare agli errori tattici o agli incidenti giudiziari che hanno colpito Matteo Ricci. C’è qualcosa di più profondo che rimanda agli elettori, ai ceti di sostegno, alla componente strutturale del consenso. E i progressisti non l'hanno colto
La vittoria, si dice, ha moltissimi padri mentre la sconfitta è orfana. Nelle Marche in realtà la disfatta del centrosinistra ha un bel po’ di genitori. Quando si perde due volte restando fuori dal governo per un decennio non basta guardare agli errori tattici, agli incidenti come quelli giudiziari che hanno colpito Matteo Ricci (ci sono lo toghe nere, non solo quelle rosse), o a un campo largo che si restringe non rispettando le promesse (per lo più sulla carta). C’è qualcosa di più profondo che rimanda agli elettori, ai ceti di sostegno, alla componente strutturale del consenso. Le Marche sono state per decenni la culla del piccolo è bello. Una regione di poveri mezzadri ha vissuto una industrializzazione diffusa che l’ha arricchita e resa protagonista di quello che molti hanno chiamato terzo capitalismo.
I marchigiani abituati a emigrare a Roma, o ben più lontano in Argentina, hanno raggiunto un nuovo benessere frutto del loro tenace lavoro. Quel modello trovava anche una sua cultura nella “scuola di Ancona” con Giorgio Fuà e l’Istituto Olivetti in economia, con Sergio Anselmi che diffondeva la microstoria e la lezione degli Annales, o con Paolo Volponi scrittore e dirigente industriale e personaggi come Anteo Crocioni il contadino filosofo protagonista del romanzo “La macchina mondiale”, per il quale gli uomini sono macchine fabbricate da altri uomini che debbono perfezionarsi senza sosta. Quel sistema produttivo e le sue proiezioni “sovrastrutturali” sono in crisi profonda. I “cespugli” diventati distretti hanno dato il massimo, la loro trasformazione si presenta incerta e probabilmente dolorosa. Non fanno eccezione nemmeno le poche grandi imprese e gli industriali che hanno giocato un ruolo nazionale e non solo.
La famiglia Merloni ha sempre incrociato industria e politica. Aristide il fondatore, cattolico popolare, il primogenito Francesco deputato Dc e dell’Ulivo, ministro nei governi Amato e Ciampi, il fratello Vittorio che crea una multinazionale e presiede la Confindustria, la figlia Maria Paola entrata in politica con l’Ulivo e il Partito democratico. La crisi del 2008-2010 è stata una vera mazzata, venduta la Indesit alla Whirlpool, il gruppo si ridimensiona ancor più dopo la morte di Vittorio nel 2016. Oggi ha comunque un fatturato da due miliardi, ma si è rannicchiato nella sua Fabriano le cui storiche Cartiere Miliani sono ormai del fondo americano Bain Capital. Un altro fondo americano, Catterton, sta portando i fratelli Della Valle nell’orbita di Bernard Arnault e del colosso del lusso Lvmh che potrebbe comprarsi anche Armani. Che cosa c’entra tutto questo con la sconfitta della sinistra marchigiana? Nulla direttamente (nonostante lo storico impegno politico dei Merloni e la oggettiva simpatia di Diego Della Valle più per il centrosinistra che per la destra) tuttavia è la spia di un disincanto che attraversa l’economia e la politica, l’industria più grande e quella più piccola.
Accompagnare la transizione o il cambio di modello non è stato il centro della campagna elettorale, anche se ne ha parlato di più Francesco Acquaroli mentre il governo stanziava 60 milioni di euro per “importanti opere” nelle Marche. L’ultimo studio della Banca d’Italia sulla economia della regione scrive che “nel 2024, l’attività economica è rimasta debole. Gli sviluppi recenti dell’economia marchigiana si collocano in un quadro di medio termine caratterizzato da perduranti difficoltà rispetto al paese nel suo complesso”. Il calo industriale è proseguito interessando sia le imprese più piccole sia le maggiori, soprattutto quelle esportatrici. Le aziende hanno una buona liquidità perché tengono fieno in cascina vista l’incertezza generale, mentre il credito si è ridotto e i prestiti si sono deteriorati. La produzione è scesa in media del 2,6 per cento, oltre la metà delle imprese registra meno vendite, la riduzione è molto più consistente nelle calzature, ma è pesante anche nel tessile-abbigliamento, tutti i settori più importanti. Acquaroli non ha mal amministrato, perché aggiungere incertezza all’incertezza? Anche lui però nel suo secondo mandato dovrà gestire una transizione strutturale alla quale nessuno sembra pronto.