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La disfatta

Marche, il fu “Ohio d'Italia”. Da Bersani a Boccia, cosa manca all'analisi della sconfitta del Pd

Luciano Capone

L’anti-sconfittismo dell'ex segretario e il quorum del capogruppo. Cosa il Partito democratico non ha capito dal voto nella regione adriatica

 Da “Ohio d’Italia” a “piccola regione italiana” in poche ore. Succede sempre così: grande test nazionale in caso di vittoria, semplice elezione locale in caso di sconfitta. Il destino delle Marche è lo stesso che toccherà – con le stesse parti, o a ruoli invertiti – a Calabria, Toscana, Campania, Veneto e Puglia. I commenti postelettorali sono un esercizio di ipocrisia che magnifica i successi e ridimensiona le sconfitte, con lo sguardo rivolto al voto successivo. In questo senso tutte le analisi sono false, ma comunque rivelatrici.  Pier Luigi Bersani, a proposito del voto marchigiano, ha commentato così: “Quella che dobbiamo fare non è una corsa dei 100 metri, ma è una partita più profonda. Attenzione allo sconfittismo. Quando parti da 12 punti sotto e arrivi a molti meno devi investire sui passi avanti che hai fatto, politici e numerici”. Insomma: un grande passo per la destra, ma un piccolo passo per la sinistra. 

I 12 punti di distacco a cui fa riferimento l’ex segretario del Pd sono quelli delle regionali del 2020 in cui l’attuale presidente di destra Francesco Acquaroli strappò con il 49 per cento la regione al centrosinistra, che con Maurizio Mangialardi ottenne solo il 37 per cento. In questo senso, sostiene Bersani, la sconfitta di Matteo Ricci contro Acquaroli per 8 punti (52 vs 44 per cento) è comunque un progresso. Quello di Bersani è un piccolo imbroglio. Perché nel 2020 il centrosinistra si presentò in versione ridotta, rispetto all’attuale “campo largo”: fuori da quella coalizione c’erano il M5s, che prese l’8,6 per cento, e una lista di sinistra radicale che prese il 2,3 per cento. Stavolta tutti hanno sostenuto il candidato del Pd Matteo Ricci che, pertanto, non partiva da “12 punti sotto” ma da uno svantaggio teorico di un solo punto. D’altronde è all’incirca quello il distacco che, fino a pochi giorni prima dal voto, il centrosinistra presumeva o voleva far credere di avere.


Se però si evita di cadere nel trucco bersaniano, che tenta goffamente di trasformare una pesante sconfitta in un’avanzata, il punto solleva una questione cruciale nella strategia di Elly Schlein. La narrazione diffusa nel centrosinistra è che Giorgia Meloni ha vinto nel 2022 solo perché le opposizioni si sono presentate divise al voto: pertanto basta unire tutti nel “campo largo” – dal Pd al M5s, passando per Avs e Matteo Renzi – per superare la destra minoritaria che governa il paese. Il voto nelle Marche mostra chiaramente che in politica mettere insieme i partiti non significa sommare i loro voti (ovvero quelli presi nelle precedenti elezioni): una coalizione può raccogliere consensi superiori alla somma delle parti che la compongono se ha un programma e una leadership credibili, viceversa perde molti pezzi per strada.

La linea “testardamente unitaria” di Schlein guarda a quel bacino elettorale potenziale che nel 2022 si suddivise tra Pd M5s ed ex Terzo polo: il problema è che al momento non c’è una formula politica capace di parlare e intercettare tutti gli elettori che non hanno votato per il centrodestra. Oggi, come l’analisi dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, una parte di quegli elettori alla proposta del centrosinistra preferisce l’astensione (M5s  o proprio Giorgia Meloni. D’altronde, come segnala YouTrend, Pd e M5s hanno perso la decima elezione su tredici in cui si sono presentati insieme.


Il miraggio a sinistra sulle preferenze del proprio elettorato potenziale si è manifestato anche dopo la recente disfatta al referendum sul lavoro dello scorso giugno indetto dalla Cgil. Nonostante un’affluenza al 30 per cento, molto lontana dal quorum e ben al di sotto delle previsioni, il Pd trasformò la sconfitta in vittoria inventandosi il “Quorum Boccia”, una soglia arbitraria e indipendente dal quesito referendario decisa dal capogruppo al Senato Francesco Boccia. Il referendum, sostenevano i dirigenti del Pd, è stato comunque un successo politico perché si sono recati alle urne 15 milioni di italiani, di cui 13 milioni hanno votato sì, più dei 12 milioni e rotti che avevano mandato la Meloni a Palazzo Chigi votando il centrodestra alle politiche del 2022. Molti passi indietro rispetto al quorum referendario formale, ma un passo in avanti rispetto al quorum politico sostanziale.


Anche quel ragionamento era un evidente imbroglio per addolcire una sconfitta peggiore delle aspettative, ma ora mostra i suoi limiti politici e numerici. Per i referendum sul lavoro nelle Marche l’affluenza fu del 32 per cento: circa 379 mila votanti, di cui 326 mila sì (a seconda del quesito). In queste elezioni regionali, Matteo Ricci ha preso appena 286 mila voti. Vuol dire che, nonostante un’affluenza del 50 per cento (+18 punti percentuali rispetto al referendum), hanno votato il centrosinistra 90 mila persone in meno di quelle che si sono recate alle urne per i quesiti sul lavoro e 40 mila in meno di quelle che hanno votato Sì. Forse l’analisi del voto nelle Marche dovrebbe partire da questo: non quanti voti in più la sinistra ha preso rispetto alla sconfitta del 2020, ma quanti voti in meno ha preso rispetto alla sconfitta referendaria di tre mesi fa.
 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali