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Paradigma Elly

La lezione per il Pd: l'astensionista di sinistra di oggi è l'operaio di ieri

Stefano Menichini

Dalle Marche arriva il vero segnale per Schlein: con la bassa partecipazione al voto, vince chi riesce a mobilitare tutti i "suoi". Ma lungo questa strada, almeno per adesso, il centrosinistra ci rimette

Quando giorni fa Dario Franceschini fece l’elogio di Elly Schlein perché “aveva recuperato gli astensionisti di sinistra”, sapeva di evocare una figura mitologica della politica italiana. Una specie di totem, intorno al quale si sono radunate per decenni generazioni di dirigenti accorati e contriti. C’era ancora il Pci, e poi il Pds-Ds, e la figura del fedele elettore che diserta le urne per punire il partito che ha dirazzato dalla giusta via era la spiegazione preferita per ogni sconfitta. Quell’elettore deluso e astenuto era un gigante imbronciato ma buono. Erano l’operaio e la casalinga che avevano ovviamente totalmente ragione nel proprio muto rimprovero, e ai quali bisognava chiedere scusa con plateali autoflagellazioni, promettendo di andare a visitarli e ad ascoltarli, la prossima volta.

 

Ci volle del tempo prima di riconoscere che in realtà l’operaio, la casalinga, l’impiegata ministeriale e il professore avevano invece continuato ad andare a votare, però magari a destra, magari per Berlusconi e Bossi. E che l’astensionismo non era una diversa e critica modalità di schierarsi a sinistra, bensì un’area di passaggio, di parcheggio anche a lungo termine, senza colori facili da attribuire. Quando capitò che fosse la destra a non essere competitiva e convincente, il Pd di Renzi superò il 40 per cento (europee del 2014) principalmente grazie al fatto che rispetto alle politiche dell’anno prima aveva votato quasi il 20 per cento in meno della gente. Dunque il totem s’era evidentemente spostato a destra. Una recente ricerca di Swg ha confermato la piena trasversalità dell’astensionismo crescente, che monta come fastidio rispetto all’insieme del sistema politico (per la sua rissosità, per la qualità dei suoi leader) e poi punisce maggiormente un partito o l’altro a seconda di meriti e demeriti contingenti. E spesso la causa (soprattutto tra gli elettori più giovani) è più da ricercare nell’incertezza e nell’assenza di proposte convincenti, che nel consapevole dissenso dalla linea scelta dal partito per cui si simpatizza. Non è più tempo di mitologici giganti proletari indispettiti, però il voto perso del giovane professionista astensionista vale esattamente quanto quello dell’operaio di una volta.

 

Allora adesso dovrebbe essere chiaro che il merito attribuito da Franceschini a Schlein è appena la metà del lavoro che sarebbe necessario al Pd. Se il recupero del mitico astensionista di sinistra passa da una accesa polarizzazione dello scontro politico, il consenso che si ritrova da una parte evapora dall’altra. Aumenta il distacco da un agone politico sovraeccitato, si allarga lo spazio vuoto di proposte convincenti. E diventa evidente l’inadeguatezza anche dell’idea di colmare questo buco con aggregati un po’ artificiosi, per quanto possano essere benintenzionati e volenterosi i civici, i neocentristi e i libdem che Matteo Renzi riuscirà a mettere insieme e presenterà alla prossima Leopolda come quarta gamba del tavolo di centrosinistra.

 

Come dimostra Giorgia Meloni nel suo rapporto con Salvini e Tajani, è il profilo della forza trainante che decide l’esito dello scontro fra le coalizioni. Alla fine, c’è poco da fare e da inventare: il destino del centrosinistra sarà segnato dal profilo del Pd, non dalla riuscita degli esperimenti di laboratorio che i suoi scienziati allestiscono nei dintorni. Il punto è che la polarizzazione non è il rimedio all’astensionismo. Ne è contemporaneamente la causa e l’effetto. Perché rende più fastidioso e respingente il rumore della politica e delle campagne elettorali. E allo stesso tempo spinge i partiti ad adeguarsi alla legge non scritta citata da Franceschini per cui, con bassa partecipazione al voto, vince chi riesce a mobilitare tutti i “suoi”. Se la sconfitta nelle Marche contiene un segnale nazionale, è che lungo questa strada, almeno per adesso, il centrosinistra ci rimette.

 

Dal 1994 al 2022, in quasi trent’anni di maggioritario all’italiana, non è mai successo che una maggioranza di governo uscente venisse confermata dalle elezioni politiche. Se Meloni riuscisse a esorcizzare questa maledizione, per il centrosinistra italiano non sarebbe una sconfitta “normale”. Sarebbe un record negativo di portata epocale. E un inevitabile ritorno all’anno zero.

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