De Pascale (Ansa) 

La vera “questione” non è il Nord, ma l'autonomia reale. Ci scrive Michele De Pascale

Michele De Pascale

I governi di ogni colore ne hanno svuotato i poteri delle regioni. Idee dal modello Emilia-Romagna, secondo il governatore

Pubblichiamo un intervento del presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele De Pascale, relativo all’articolo di Carlo Stagnaro sul Foglio del 18 agosto, dal titolo “La questione settentrionale”.


  

La questione settentrionale e l’autonomia possibile
L’articolo del Foglio coglie un punto importante: la questione settentrionale non è più al centro del dibattito politico del paese. Ma se vogliamo davvero capirne l’origine e il senso, non possiamo partire dagli anni Ottanta e dalla Lega Lombarda. La citazione corretta è quella di Guido Fanti, sindaco di Bologna e primo presidente della Regione Emilia-Romagna, una delle migliori menti riformiste del Pci, che avviò negli anni Settanta una forte battaglia per contrastare lo Stato centralista che, da questo punto di vista, aveva caratterizzato tanto il Regno quanto il fascismo e i primi decenni della Repubblica.

 
L’istituzione delle Regioni fu una svolta politica e culturale, guidata in prima fila dalla sinistra e radicata nella tradizione democratica di questo paese. Non è un caso se, nelle Feste dell’Unità del Dopoguerra, campeggiava lo slogan “per le autonomie“, o se l’associazione dei comuni progressisti si chiamava “Lega delle autonomie“. Quella cultura ha trovato poi sbocco nella riforma del Titolo V che, pur con limiti evidenti (a cominciare da un eccesso di potestà legislativa regionale in materie strategiche come l’energia), ha segnato un cambio di paradigma: la piramide istituzionale è stata rovesciata, attribuendo agli enti territoriali la priorità nelle funzioni amministrative, dove – essendo più vicine ai cittadini – la democrazia è partecipazione e controllo, non solo delega.

 

Il paradosso di oggi

Oggi, però, assistiamo a un paradosso. L’autonomia reale, quella prevista dalla Costituzione, è stata progressivamente svuotata da governi di ogni colore politico. Potrei citare migliaia di esempi: dall’ipertrofia dell’Inps, che gestisce bonus nido e tutele sociali, alle strade locali restituite all’Anas, fino alle ricostruzioni post-catastrofe affidate all’esercito. Non si sono levate grandi voci autonomiste contro queste scelte (la mia sì), mentre si è cercato di ovviare a questo problema con iniziative delle singole Regioni. Risultato? L’autonomia differenziata non si farà mai, vista la cultura centralista tanto di Meloni quanto di Tajani. Io non sono disponibile a trasformare l’Italia in un paese arlecchino con regole diverse ogni venti chilometri, mentre lo Stato si occupa persino di asfaltare le vie dentro i Comuni. Ma l’Emilia-Romagna è disponibile a costruire una strada diversa, questa volta non con la logica dei colpi di maggioranza in Parlamento, ma con quella della costruzione dal basso, dai territori, parlandosi fra diversi: penso ad esempio alla cultura autonomista veneta.
L’autonomia differenziata, come il centralismo che attraversa indistintamente destra e sinistra, sono due estremi opposti, entrambi lontani dalla visione costituzionale di Fanti. Lui parlava di Regioni del Nord insieme per cambiare il paese, non per frammentarlo in cinque politiche energetiche contraddittorie o in sistemi di formazione professionale non comunicanti.

 

La vera questione settentrionale

La “questione settentrionale“ non può e non deve ridursi a una rivendicazione egoistica. Non è un “io speriamo che me la cavo“ declinato in dialetto lombardo o veneto. E’ piuttosto la necessità di ridefinire le politiche industriali del paese, mettendo al centro il motore manifatturiero che è principalmente nel Nord, ma di cui beneficerebbero ovviamente anche le imprese del Centro e del Sud. Qui, in Emilia-Romagna, il mondo del lavoro firma contratti decentrati per aumentare produttività e salari; il sistema industriale e artigianale chiede efficienza amministrativa, infrastrutture moderne, politiche fiscali che favoriscano gli investimenti. Qui si rifiuta la demagogia sull’immigrazione, consapevoli che i trend demografici sono incompatibili con lo sviluppo industriale senza nuovi cittadini. Qui l’europeismo è solido, capace anche di accettare sacrifici in nome dei valori – come per la guerra in Ucraina – ma altrettanto determinato a non subire norme demagogiche che penalizzano la manifattura europea senza incidere minimamente sulle emissioni globali.

 

Emilia-Romagna, laboratorio repubblicano

L’Emilia-Romagna è la Regione più repubblicana d’Italia: qui a Reggio nacque il Tricolore, qui Garibaldi trovò rifugio nella trafila. Non abbiamo mai avuto paura dell’autonomia, ma non l’abbiamo mai intesa come spinta egoista o arma di divisione. L’abbiamo intesa come responsabilità: costruire politiche di sviluppo fondate sulla sussidiarietà circolare, dove terzo settore, impresa privata, sindacati e istituzioni lavorano insieme per lo sviluppo di un’economia sociale.


Per questo la questione settentrionale oggi non può essere ridotta a un grido egoista, ma va riletta come richiesta di politiche industriali, infrastrutturali e fiscali all’altezza di una macro-regione e di un paese che competono con gli Stati Uniti, la Cina e gli altri paesi più avanzati. A testa alta, come stanno dimostrando le nostre imprese e i nostri lavoratori davanti ai dazi di Trump o alle crisi energetiche. Se pensiamo ad esempio all’energia, il paese dal almeno 25 anni balla sull’orlo del burrone, ha azzerato la produzione nazionale di gas, ha accumulato ritardi enormi sulla sicurezza degli approvvigionamenti, ha un dibattito sul nucleare solo ideologico e per nulla di merito, ha prodotto enormi resistenze anche sulle rinnovabili e va addirittura verso le tariffe “zonali” che per via del clima saranno drammaticamente penalizzanti per il Nord. Sull’energia la nostra inadeguatezza vale almeno due volte i dazi di Trump.
Oppure pensiamo ai costi logistici, con Autorità portuali commissariate per tensioni dentro la maggioranza di governo e investimenti sulle concessioni autostradali (Gronda di Genova, Passante di Bologna, A22) che dopo aver superato la fase del dibattito pubblico e delle autorizzazioni sono completamente ferme con scontato rimpallo di colpe fra Governo, privati e Bruxelles.

 

Conclusione

La verità è che il Nord produttivo continua a lottare e spesso a vincere, ma lo fa in uno Stato spesso assente e senza una strategia. E chi mi conosce sa che non ne faccio un attacco diretto – o quantomeno esclusivo – al governo Meloni. E lo dico con rispetto: la principale battaglia ingaggiata da chi, in questo governo, si presentava come voce del Nord è il ponte sullo Stretto di Messina. Allo stesso modo il Pd e il centrosinistra devono produrre un cambiamento radicale, che ancora non si vede, se vogliono riguadagnare consensi sopra al Po. Ecco il vero limite: mentre il paese reale chiede una politica industriale per restare competitivo nel mondo, la politica nazionale resta spesso prigioniera di simboli vuoti e di illusioni fallimentari.

  
Michele De Pascale, presidente della Regione Emilia-Romagna