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L'analisi
La questione settentrionale: indagine su un tabù
Il Nord che dettava l’agenda politica, che imponeva la classe dirigente, che rivendicava autonomia schiacciato tra la zavorra fiscale italiana e la pressione delle regole europee, ha perso la voce. La scarsa sensibilità della politica, la nuova centralità di Roma
Gianfranco Miglio diceva che il Nord era un gigante economico ma un nano politico. Solo unendosi, le regioni settentrionali avrebbero potuto avere un peso negoziale sufficiente per ottenere dallo stato centrale gli strumenti per affrontare, e risolvere, i propri problemi. In un documento pubblicato nel 1992 dalla Fondazione Agnelli e intitolato “La Padania, una regione italiana in Europa”, Alberto Bramanti e Lanfranco Senn scrivevano che “il livello di sviluppo raggiunto dalle regioni padane le colloca nella parte alta della graduatoria [europea]… Il pil pro capite (calcolato a parità di potere d’acquisto) ugualmente si situa ben al di sopra della media europea; in particolare, quello della Lombardia è superato solo da altre tre regioni europee: Hamburg, Ile-de-France e Bruxelles”. Ciò nonostante, la convinzione diffusa era che a Roma i rapporti di forza fossero sbilanciati. Era come se, all’interno del paese, si fosse messo in moto un processo di specializzazione produttiva: al Nord la creazione della ricchezza, al Sud la gestione degli apparati pubblici. Questo compromesso tacito non poteva reggere e non resse. Ma a cosa ha portato la sua rottura?
La forza economica del Settentrione è ancora oggi un dato di fatto: la Lombardia, in particolare, con un pil pro capite di 51 mila euro nel 2023, è tra le venti regioni più ricche dell’Unione europea, nel frattempo allargatasi a ventisette Stati membri. Il resto del Nord segue a non troppa distanza (con alcune eccezioni). Diversamente dal passato, durante la Seconda Repubblica il Nord ha anche avuto un maggiore peso politico, misurato sia in termini di “occupazione del potere”, sia di capacità di dettare l’agenda. Come nota Pagella Politica in un articolo sulla provenienza dei ministri nel corso della storia repubblicana, fin dalla sua nascita nel 2001, al ministero dell’Economia e delle Finanze non c’è mai stato un inquilino proveniente dal Sud: sette venivano dal Nord (Tremonti, Siniscalco, Padoa Schioppa, Monti, Grilli, Franco e Giorgetti) e quattro da Roma o da altre città laziali (Saccomanni, Padoan, Tria e Gualtieri). Oggi, in uno dei governi meno sensibili alla questione settentrionale, a Via XX Settembre siede Giancarlo Giorgetti, che non è settentrionale solo per nascita ma anche per – se così si può dire – ideologia.
La questione settentrionale, che negli anni Novanta aveva rivoluzionato la politica italiana imponendo parole d’ordine (la lotta contro il fisco), riforme istituzionali (il federalismo) e nuovi volti, può quindi dirsi risolta? Probabilmente no; ma afona certamente lo è diventata. La mobilitazione del Nord ha prodotto degli effetti ma non dei risultati. Nell’attuale fase politica non sembra esserci spazio per la questione settentrionale: Roma ha riconquistato una centralità che non aveva da anni. Come ha scritto Claudio Cerasa sul Foglio del 1° agosto, la romanità è l’asso nella manica di Giorgia Meloni, che non a caso – dopo il lento tramonto dell’autonomia – ha portato a casa l’avvio della riforma costituzionale bipartisan per attribuire poteri speciali alla Capitale. Per comprendere cosa sta succedendo, bisogna anzitutto ricostruire cosa è successo.
Una breve storia dell’idea politica di Padania
Il primo a utilizzare il termine Padania con un significato politico fu Guido Fanti, comunista tutto d’un pezzo e primo presidente della appena costituita Regione Emilia Romagna. Nel 1975, propose l’istituzione di un coordinamento permanente tra Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia-Romagna (che lui chiamava “Lega del Po”). “Le regioni – spiegò alla Stampa il 6 novembre 1975 – rifiutandosi di chiudersi in sé stesse, sono chiamate a svolgere il ruolo di protagoniste della politica nazionale e il consolidarsi dei rapporti permanenti, nell’area padana, rappresenta un contributo decisivo”. La proposta non ebbe conseguenze pratiche. Ma coglieva un punto che sarebbe rimasto vero negli anni successivi: tra le regioni settentrionali, pur nelle loro differenze economiche, sociali e culturali, vi erano dei tratti comuni che richiedevano forme di collaborazione sistematica.
Tutto questo rimase tuttavia sotto la superficie per lungo tempo, perse ogni velleità politica e guadagnò al massimo qualche riflessione accademica (tra cui quelle, fondamentali, di Miglio sul federalismo e le macroregioni). Si possono azzardare diverse spiegazioni, non mutuamente esclusive. Una è che, negli anni Ottanta, la leadership politica di Bettino Craxi impose alcuni temi cari al Nord, e in particolare alla sua componente industriale: basti pensare alla spinta modernizzatrice che venne dall’abolizione della scala mobile. Tutto ciò si mischiò a politiche irresponsabili dal lato della spesa, che cercarono di coniugare la tutela della competitività delle imprese (anche attraverso le continue svalutazioni competitive, nonostante il “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia voluto da un altro uomo del Nord, Beniamino Andreatta) e il sostegno sociale al Mezzogiorno. La questione meridionale, dal canto suo, continuava a rimanere al centro dell’agenda nazionale, essa stessa figlia e vittima delle contraddizioni tra una politica assistenzialistica che non riusciva a generare frutti duraturi, il peso della criminalità organizzata e del condizionamento mafioso sull’economia di molte aree del Mezzogiorno e l’utilizzo dell’impiego pubblico come valvola di sfogo.
Tutto ciò determinava un equilibrio precario: al Nord veniva concessa la moneta debole, al Sud le spinte inflazionistiche erano compensate dalle tutele del pubblico impiego. La meridionalizzazione della Pa, beninteso, è un fenomeno antico e complesso: “La quota dei burocrati dei livelli superiori nati nel meridione – scriveva Sabino Cassese in un’indagine pubblicata dallo Svimez nel 1977 – passa dal 23 per cento al 56 per cento fino al 1954 e continua a crescere successivamente fino a raggiungere il 62-65 per cento”. Anche per quanto riguarda i livelli più bassi dell’amministrazione, Cassese stimava che la quota dei funzionari di origine meridionale fosse superiore al 60 per cento. Più recentemente, egli ha notato che “i meridionali sono giunti a sfiorare il 70-80 per cento dei quadri direttivi”, anche per effetto della crescita dimensionale dello stato e della conseguente funzione attrattiva svolta da Roma, col risultato di una “perdita di ‘rappresentatività’ della burocrazia, nel senso che questa non proveniva in maniera equilibrata dalle varie parti del paese”. Ciò non è stato privo di conseguenze per lo stesso Mezzogiorno: il più alto livello dei salari reali nel settore pubblico e la maggiore stabilità dei contratti ha drenato competenze dal privato, compromettendo le potenzialità di sviluppo dell’area e aggravando il circolo vizioso della redistribuzione (si vedano i lavori pionieristici di Alberto Alesina e altri e quelli più recenti di Marta Auricchio, Emanuele Ciani, Alberto Dalmazzo e Guido de Blasio).
Non solo: l’Italia degli anni Ottanta era un paese nel quale un sistema tributario e regolatorio bulimico era mitigato dalla diffusa tolleranza dell’illegalità e dell’irregolarità, tanto nei rapporti col fisco quanto nell’attuazione delle norme (a partire da quelle lavoristiche). Il declino italiano affonda le radici, per molti aspetti, in quel compromesso, che contribuì a creare un disincentivo implicito alla crescita dimensionale delle imprese, uno dei fattori più importanti nello spiegare la stagnazione di lungo termine della produttività. A chiudere il cerchio erano un sistema del credito fortemente politicizzato e la pervasiva presenza dello stato in tutti i servizi pubblici, i cui extracosti finivano per scaricarsi sul bilancio statale, contribuendo all’enorme crescita del debito. Insomma: l’accordo che teneva assieme il paese poggiava su basi friabili che, viste col senno di poi, hanno frenato lo sviluppo del Mezzogiorno e la competitività di una parte consistente delle imprese settentrionali.
L’equilibrio si ruppe nei primi anni Novanta, complice l’accelerazione dell’unificazione europea. L’adesione all’Ue prometteva grandi benefici ma richiedeva alcuni cambiamenti. Tre sopra gli altri: il progressivo trasferimento delle leve sulla politica monetaria da Roma a Francoforte; il risanamento delle finanze pubbliche e la riduzione del debito, col conseguente impegno a privatizzare le partecipazioni statali e mettere fine al loro utilizzo come bacino di assunzioni ed elargizioni; l’obbligo di recepire e applicare le norme europee, con la conseguenza che la lettera delle leggi e la loro attuazione nel mondo reale non potevano più rimanere due rette parallele. Così, quasi contemporaneamente vennero meno le svalutazioni competitive, si ridussero le possibilità di acquistare il consenso e la pace sociale con la spesa pubblica e la pressione fiscale e regolatoria cominciò a mordere. Secondo un’analisi di Tommaso Di Nardo per conto del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e della Fondazione nazionale dei commercialisti, la pressione tributaria (che assieme a quella contributiva compone la pressione fiscale complessiva) è cresciuta di undici punti percentuali tra il 1980 e il 2019, col grosso della crescita tra la fine degli anni Ottanta e tutti i Novanta. Tali fenomeni, assieme ai più vasti cambiamenti che determinarono l’avvio di un nuovo ciclo politico non solo nel nostro paese, fecero venire meno quella camera di compensazione che aveva tenuto assieme Nord e Sud, senza che altri cambiamenti di segno opposto – su tutti, i considerevoli successi nella lotta alla mafia dopo la stagione delle stragi – fossero sufficienti a controbilanciarli. Il Nord emerse così come soggetto politico. Non si capisce il fenomeno delle Leghe prima, della Lega Nord poi, senza tenere conto di questi fatti; ma non si comprende neppure il successo di Forza Italia né perché, all’interno del Partito democratico (e prima di esso dei Democratici di sinistra) le correnti riformiste siano tradizionalmente trainate da esponenti del Nord.
Su questa forte convergenza di interessi si innestò anche una costruzione culturale, tesa a riscoprire le radici comuni delle regioni padane: protagonista ne fu Gilberto Oneto, scomparso proprio dieci anni fa nel 2015, il quale seppe mettere fieno identitario nelle rivendicazioni prevalentemente economiche del settentrione. Attraverso le sue imprese culturali – la più importante delle quali fu “La Libera Compagnia Padana”, che per due decenni rappresentò la più organizzata e attrezzata iniziativa di area leghista – Oneto riuscì a far emergere un dibattito non solo sul se, ma anche sul come e sul perché il Nord avrebbe dovuto marciare sotto una stessa bandiera. Per un periodo questo fu un collante potente nella sollevazione del Nord e fece davvero germogliare un’identità in senso proprio. Ne sono ancora oggi una testimonianza i cartelli di molti comuni del Nord, che accanto alla denominazione ufficiale ne riportano una in lingua locale, e i graffiti sempre più sbiaditi del Sole delle Alpi su muri e cavalcavia (“i muri sono i libri dei popoli”, ripeteva Umberto Bossi). Questa riscoperta, per il modo in cui venne strumentalizzata dalla Lega, finì però anche per diventare un limite: la riduzione di tale imponente lavoro a fenomeno folkloristico (la cerimonia dell’ampolla con l’acqua del Po) finì per spingere una questione molto seria al confine con la farsa (o anche oltre).
Del resto, tutti sapevano che l’unità del Nord non nasceva da qualche remoto episodio fondativo, ma dalla continuità del suo tessuto economico e sociale. Il periodico diretto da Oneto, i Quaderni Padani, si concludeva con una “Rubrica silenziosa” la quale mostrava, di volta in volta, la distribuzione regionale di vari indicatori economici e sociali: il reddito pro capite, la propensione all’evasione, il numero di fedeli nelle messe, e così via. Da ogni grafico emergeva una netta linea di divisione tra il settentrione e il meridione. Oggi se ne trova l’eco in una delle figure postate su X (ex Twitter) dal divertente account “Terrible Maps”, che ogni tanto rilancia quella su “Literally all statistics about Italy” (“letteralmente ogni statistica sull’Italia”).
Negli anni precedenti alla piena adesione all’Unione europea, quando pareva che l’Italia avrebbe potuto restarne fuori, l’ex ministro del Bilancio, Giancarlo Pagliarini, insisteva su un ingresso a doppia velocità, il settentrione subito, gli altri appena possibile. Il punto non è il realismo della proposta, quanto ciò che essa tradiva: l’idea che le regioni settentrionali costituissero un blocco compatto che non poteva o voleva più sacrificare i propri interessi alla memoria del Risorgimento. Il Nord, in questo modo, divenne egemone sulla politica italiana per un certo periodo: era il Nord a dettare l’agenda, era il Nord a imporre la classe dirigente, era il Nord a condizionare i tentativi di aggiornamento e revisione della Carta costituzionale. Ciò accadde nel 2001, con la riforma del Titolo V scritta dal centrosinistra, e ancora nel 2006, con la devolution a trazione leghista poi rigettata nel referendum confermativo, e infine con l’avvio del percorso dell’autonomia differenziata, su cui torneremo tra poco.
Al centro di questo cambiamento politico c’era la percezione, da parte del Nord e soprattutto dei suoi ceti più produttivi, di trovarsi stritolati in una morsa: da un lato, la partecipazione all’Unione europea e l’apertura del commercio internazionale rendeva la competizione più spietata; dall’altro, l’esigenza di finanziare con le tasse (e non più col debito e l’inflazione) un apparato statale elefantiaco agiva da zavorra competitiva. Una misura di questo gap è data dal residuo fiscale, cioè la differenza tra le imposte versate dalla popolazione residente in una certa regione e quanta parte di esse ritorna sul territorio sotto forma di servizi: secondo la Banca d’Italia, nel 2019 (ultimo anno per cui il dato è disponibile) le regioni del centro-nord avevano un residuo fiscale negativo per 95,9 miliardi di euro (il 6,9 per cento del pil regionale), mentre Sud e isole erano in attivo per 64,2 miliardi (il 16,2 per cento del pil).
I numeri dicono che, se l’obiettivo era ridurre il residuo fiscale, la missione non è stata completata. Gli strumenti adottati – il regionalismo, la devolution, l’autonomia – sono stati inadeguati perché non intaccavano la sfera tributaria e, quindi, il cuore del sistema dei trasferimenti interni.
Un’analisi condotta da Rossana Arcano, Alessio Capacci e Giampaolo Galli per l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica mostra che “i trasferimenti dal Nord al Sud non sono dovuti a eccessi di spesa al Sud, ma al fatto che i redditi dei residenti del Sud sono più bassi e quindi sono più basse le tasse e i contributi pagati dai residenti del Sud”. Infatti, sulla base di dati 2021 Itinerari Previdenziali stima che in media un residente nel Nord versa 6.098 euro di Irpef, contro 5.932 nel centro e 4.313 nel Sud. Quindi, hanno ragione i cittadini settentrionali nel sentirsi sistematicamente perdenti sul piano fiscale; ma sbagliano nel pensare che, per mitigare questo effetto, sia sufficiente tagliare qualche voce attiva nel bilancio dello Stato. Per la stessa ragione, il divario non può essere colmato attraverso interventi di mero decentramento amministrativo, come sono quelli oggi possibili a Costituzione vigente (o attuati, nel caso della sanità). Senza mettere in discussione gli equilibri tributari – e quindi la potestà di governare le imposte – il meccanismo dei trasferimenti interni rimane intangibile. E sotto questo profilo hanno perfettamente ragione Marco Leonardi e Leonzio Rizzo a dire che la contrapposizione sui trasferimenti finanziari dal centro e la compartecipazione al gettito delle imposte nazionali, che pure ha suscitato enormi polemiche nel contesto dell’autonomia differenziata, è puramente nominalistica, in quanto in entrambi i casi le leve del fisco restano saldamente a Roma (il Foglio, 1° agosto).
Ecco perché le forme di decentramento sperimentate finora non hanno in alcun modo mitigato lo squilibrio fiscale; ed ecco perché l’autonomia differenziata non potrebbe farlo, con buona pace della retorica sulla “secessione dei ricchi”. Anzi, quest’ultima trovata retorica ha offerto un insperato aiuto a quella parte della Lega che ancora cerca – al Nord – di riconnettersi con le sue radici, alimentando la percezione che le battaglie di un tempo siano ancora in atto. Quando ciò non è più vero: non tanto per responsabilità della Lega, ma perché il Nord non pare più esprimere una proposizione politica unitaria e coerente.
Il Nord è ancora una comunità di interessi?
Viene da chiedersi, allora, se quello a cui stiamo assistendo non sia semplicemente la fine di un’epoca: gli sforzi di rafforzare l’autonomia non hanno dato frutti semplicemente perché rispondevano a una domanda malposta. D’altronde, la messa in discussione del mito dell’Unità nazionale ha portato, paradossalmente a due conseguenze opposte che si rafforzano vicendevolmente. La prima è stata la riscoperta, per reazione, dei simboli della Nazione (maiuscola d’ordinanza), a partire dalla bandiera e dall’inno, anch’esso recentemente glorificato di dignità costituzionale. L’altra è stata una fiorente letteratura di critica all’essenza stessa dell’identità nazionale italiana, che prosegue ancora oggi come dimostra il bel libro di Fabrizio Rondolino “L’Italia non esiste”. Solo che questi lavori finiscono per ottenere più di quello che vogliono: per bombardare l’identità italiana, devastano qualunque identità. Se non esiste l’Italia, non esistono neanche i sottoinsiemi di italiani. Quindi, a fortiori, non esiste neppure il Nord.
Ci sono pure evidenze in senso contrario. La prima viene, ovviamente, dai referendum sull’autonomia, svoltisi in Veneto e Lombardia il 22 ottobre 2017, con un successo plebiscitario dei sì e un’affluenza, rispettivamente, del 57,2 per cento e del 38,2 per cento. Seppure a distanza di anni, questa partecipazione suggerisce che il tema è sentito, e che l’autonomia rappresenta (o ha rappresentato in tempi recenti) un collante capace di produrre una mobilitazione popolare. Il risultato è tanto più significativo se si considera che il partito teoricamente portabandiera di tale battaglia, cioè la Lega, ha vissuto sul tema una lacerazione interna. Da un lato ha espresso un forte sostegno territoriale, testimoniato da figure come Attilio Fontana, Luca Zaia e il compianto Roberto Maroni; dall’altro, era ed è tangibile la freddezza dei vertici nazionali (una volta si sarebbe detto: federali), tutti proiettati nel tentativo di spostare il radicamento geografico del partito dalle regioni del nord a tutto il paese, e il suo asse politico dal Nord a destra.
Un secondo elemento nasce dalla compattezza con cui le regioni del Nord, seppure in modi e con forme diverse, hanno aderito alla richiesta di autonomia: nata in Veneto e Lombardia, essa è stata rapidamente fatta propria dall’Emilia Romagna (che solo recentemente, e per ragioni politiche, ha abbandonato il percorso), dal Piemonte e dalla Liguria. E’ secondario, sotto questo profilo, se e quanto l’autonomia concretamente declinata avrebbe potuto cambiare gli equilibri in discussione: è rilevante, invece, che sia rapidamente diventata un elemento orizzontale tra le regioni e, ancora più importante, un elemento verticale di rottura tra il Nord (e le rappresentanze locali delle forze politiche) e i partiti nazionali. In tal senso, hanno scritto Andrea Giovanardi e Dario Stevanato nel loro libro del 2020 “Autonomia, differenziazione, responsabilità”, “è proprio la diversità riscontrabile tra i diversi territori regionali che compongono la nazione italiana a giustificare e rendere plausibile una differenziazione delle competenze e degli spazi di autonomia. Alcuni territori e regioni… aspirano a una maggiore autonomia, all’acquisizione di maggiori competenze e funzioni, e hanno in molti campi e occasioni dimostrato di saper organizzare ed erogare servizi pubblici con un sufficiente grado di efficacia ed efficienza, in molti casi superiori a quelle dello stato centrale”.
Un terzo fattore viene dalla cronaca: nell’agonia delle istanze del Nord, la più grande e dinamica città settentrionale – cioè Milano – ha cercato una via d’uscita individuale. Il processo di cambiamento che ha segnato il capoluogo lombardo ha finito per produrre un distacco col resto del Nord. La sua crescita è stata esclusiva e non inclusiva, come hanno notato, da prospettive diverse, sia Alberto Mingardi (il Foglio, 23 luglio), sia Giorgio Gori (il Foglio, 4 agosto). Così, il dibattito sul Nord è diventato un dibattito su Milano e le peculiarità di un’intera area sono state soppiantate da quella di una specifica città – producendo una frattura nel suo stesso legame col territorio. Concentrandosi sulla singolarità di Milano, si è perso di vista il tema più ampio, che pure carsicamente riemerge: cosa è, per esempio, la reazione italiana al Green Deal se non il rigetto (magari con tratti puramente reattivi e in parte di retroguardia) di un’impalcatura di regole percepita come penalizzante per l’intero sistema industriale del Nord? Ancora una volta il punto cruciale non è la giustezza delle percezioni né tanto meno delle soluzioni proposte, ma l’evidente compattezza delle richieste. La coerenza di fondo degli interessi del Settentrione nasce dalla sua spina industriale manifatturiera e dalla conseguente composizione sociale – una caratteristica che persino Confindustria non sembra più cogliere, come ha notato Dario Di Vico sul Foglio del 6 agosto. L’una e l’altra sono schiacciate tra la zavorra fiscale italiana e la crescita esponenziale delle regolamentazioni europee: il continuo riproporsi delle ragioni della crisi dello scambio economico-politico che si era frantumato alla fine della Prima Repubblica.
Questo ci porta a un tema cruciale: perché, se il Nord continua ad avere interessi comuni e distinti dal resto del paese, non è più oggetto di alcuna attenzione politica? In parte la risposta sta in un’analisi svolta da Gianni Fava, il candidato sconfitto da Salvini nell’ultimo congresso della Lega nel 2017: Fava notava il contrasto tra gli slogan del passato (“più lontani da Roma, più vicini all’Europa”) e quelli del presente (“più Italia, meno Europa”). Ecco: in questa metamorfosi c’è non solo l’involuzione di un partito ma, in parte, di un territorio, o quanto meno della sua classe dirigente. E se è vero che il Nord deve la sua unità al collante economico e industriale, allora la sua crisi è anzitutto la manifestazione del declino della borghesia settentrionale. Una volta chiedeva “federalismo liberista” oggi si scopre non di rado a mendicare protezione centralista. Invece di essere corali e coese, le richieste del Nord (e in particolare dell’industria settentrionale) hanno sempre meno per oggetto la pretesa di essere lasciati liberi da lacci e lacciuoli e sempre più la ricerca di tutela e supporto pubblico. Il paradosso è che, mentre il Nord annacqua la propria identità, il Mezzogiorno sembra ritrovarla in modo originale e lontano rispetto alle politiche di coesione che hanno fallito negli ultimi trenta e più anni: basti citare i ragionamenti che portano alla Zes unica ma anche la battaglia che la Sardegna sta conducendo attorno al concetto di insularità. Come ha scritto Nicola Rossi, emerge “la natura schiettamente sovraregionale dei problemi meridionali” e con essa un nuovo approccio basato sulla crescita delle opportunità e non sull’assistenzialismo e sui trasferimenti.
Nel 1997, Miglio dava alle stampe un libro col futuro presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera, intitolato “Federalismo e secessione. Un dialogo”. Oggi sarebbe impensabile: per la forma, cioè una discussione pacata tra due intellettuali culturalmente distanti ma uniti dal reciproco rispetto; per l’argomento, che sarebbe considerato scabroso e inavvicinabile; ma soprattutto per l’assenza di un pubblico interessato all’argomento e disposto ad ascoltare le tesi altrui e, eventualmente, cambiare idea (o farsi un’idea). Forse al Nord manca la voce; o forse, pur avendocela, non ha nulla da dire e quindi non la usa. Di certo, senza questo silenzio difficilmente avrebbe potuto farsi sorpassare a destra da Roma, sulla strada verso l’autonomia.