il girotondo

Mille giorni di governo Meloni: stabilità si, crescita no

Veronica De Romanis

La premier ha riportato in ordine i conti pubblici, ottenendo lodi da Bruxelles e segnali di fiducia dai mercati. Ma senza riforme strutturali, la stabilità rischia di diventare immobilismo

I conti sono tenuti in ordine. Questo in estrema sintesi il bilancio dei primi mille giorni del governo guidato da Giorgia Meloni. Un esempio? Nel 2024 si è registrato un avanzo primario pari allo 0,4 per cento. Per l’anno in corso il saldo è previsto salire allo 0,7 per cento. Che cosa vuol dire? Le entrate superano le uscite al netto di quelle destinate al servizio del debito pubblico. Per trovare un altro segno positivo bisogna tornare al 2019 quando il surplus primario arrivò all’1,9 per cento. Ciò non deve stupire. I governi che, dal 2013 in poi, hanno imposto politiche di austerità sono, infatti, quello guidato da Conte e quello attuale. Ciò che li accomuna non è solo l’adozione di misure di bilancio restrittive, ma anche il fatto di aver promesso l’esatto contrario in campagna elettorale. “Stop all’austerità” e “spese per tutti e tutto” erano i messaggi ricorrenti. Poi, una volta alla guida del paese, la realtà ha presentato il conto. O, più precisamente, lo hanno fatto coloro che acquistano il nostro debito, i cosiddetti mercati. Conte 1 provò a sfidarli. L’effetto fu disastroso: lo spread salì oltre i 300 punti base con conseguenze pesantissime per cittadini e imprese. Il governo attuale, invece, non ci ha provato nemmeno. E ha fatto benissimo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. A cominciare da quelli dei funzionari di Bruxelles che hanno promosso a pieni voti la traiettoria stabilita dal governo della nostra spesa pubblica e del nostro rapporto debito/Pil. Intendiamoci, la discesa del debito è molto graduale. In 7 anni il rapporto cala di 3,3 punti percentuali: dal 135,3 per cento del 2024 al 132,5 del 2031. La stima, peraltro, non include l’impatto negativo degli eventuali dazi imposti dall’amministrazione americana. Ma ciò che conta è la direzione. E, soprattutto, l’impegno e la volontà politica.

A questo proposito, il paragone con il governo Conte 1 è interessante perché all’epoca l’aver tenuto i conti in ordine fu un risultato che nessuno rivendicò. Nessuno. Non lo fece il premier, Giuseppe Conte, appunto, né tantomeno i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Dal loro punto di vista, l’austerità non era un risultato di cui ci si doveva vantare: meglio, quindi, farla sparire dal dibattito pubblico. Questa volta, però, è diverso. Il motivo è semplice: la stessa austerità è stata presentata sotto una nuova veste, quella della stabilità. Geniale. E, così, ciò che non si poteva mostrare allora, oggi diventa un motivo di orgoglio. “Il paese è stabile”, “il governo è stabile”, queste sono le frasi che più spesso sentiamo pronunciare dagli esponenti della maggioranza. Tutto bene? Non proprio. La stabilità è una condizione necessaria ma non sufficiente per crescere. Chi è stabile, oggi, non sta immobile: torna indietro. In un contesto di forte incertezza e di complessità crescente, stare fermi non è una strategia vincente. Conservare (questo – del resto – fanno i partiti conservatori come quello guidato da Giorgia Meloni) può funzionare in politica. Ma non in economia. Per aumentare la prosperità e il benessere dei cittadini serve agire con interventi strutturali. In altre parole, servono quelle riforme che da anni rimandiamo. La più importante è senza dubbio la spending review. Ossia un piano di lungo termine di revisione, ricomposizione e riduzione della spesa pubblica. Certo, una simile operazione richiederebbe anche una nuova comunicazione, centrata non più sulla “quantità” della spesa bensì sulla “qualità” della spesa. Alle tre “r” già citate, se ne dovrebbe, quindi, aggiungere una quarta: quella del “racconto”. Procedendo con questo “metodo”, il governo Meloni potrebbe cambiare l’assetto produttivo del nostro paese. Ma, soprattutto, incidere sulle convinzioni degli italiani in materia economica, ancora profondamente influenzate da anni di populismo culminato con lo scellerato Bonus 110 per cento. Non è vero che “più spendi, più cresci”. Sradicare una volta per tutte questo inganno sarebbe il vero, grande successo.

 

Veronica De Romanis
docente di Politica economica europea, Luiss

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