Il racconto

La "mutua" del tax credit, controlli impossibili, l'assedio dei produttori per difendere il dg Borrelli. Meloni: "Ignobile scandalo"

Carmelo Caruso

Una riforma tenuta ferma, dal 2022, l'assedio di registi, sigle di cinema per non rimuovere il dg Cinema (il tentativo di Bonisoli, e la marcia indietro). Meloni: "Staneremo il malaffare. Sangiuliano ha toccato nervo scoperto"

Lo difendono, lo rivogliono. Perché? Chi è Nicola Borrelli? È colpa di questo Carneade, dell’ ex direttore Cinema del ministero della Cultura, o è colpa di produttori, registi, che assediavano ministri, sottosegretari: “Vogliamo lui, solo lui. Non lo cambiate”? Se nessuno italiano vorrà più sentire la parola Tax credit è colpa di Borrelli, che Anica, Apa stanno difendendo come fosse Gaio Cilnio Mecenate, o di chi non ha detto: meno, meglio e vigilato? Il  sistema è stato ingolfato da pratiche, una riforma pronta è stata tenuta ferma. Il profumo di presunta arte era così  forte da coprire l’olezzo di patacca.

  
Dice Meloni che “il Tax credit è stato un ignobile scandalo, un meccanismo distorto, costato sette miliardi negli ultimi anni”, che il caso Kaufmann è “solo l’epilogo drammatico di un sistema” e promette che verrà  stanato “il malaffare perché io non ho paura”. E c’è da crederlo, ma di chi è la colpa se una legge di civiltà, come il Tax credit,  oggi è solo sinonimo di truffa e film fantasma? Nel 2023 si sono prodotti 402 film, 398 con Tax credit un incremento del 53 per cento rispetto al 2019. Le richieste di Tax credit per documentari passano da 56 del 2019 a 104 nel 2023. Dalla notte del 2 luglio, la notte delle dimissioni di Borrelli, le associazioni del settore cinema, distributori, festival (l’elenco sarebbe troppo lungo) esprimono “forte preoccupazione per il vuoto lasciato” e “per l’assiduo lavoro garantito”. Mai parola è stata più esatta. Assiduo.

 

Borrelli è stato così assiduo al punto di restare sedici anni nella stessa carica  con 11 ministri e 10 governi. Nel 2019, quando Alberto Bonisoli, ex ministro gialloverde, decide di spostarlo dalla direzione, un’interruzione, si scatena la stessa rivolta di oggi. Passato Bonisoli torna ministro Dario Franceschini e lo riporta al suo posto perché, diceva, “lo vogliono i produttori”. Tutti sostituibili ma Borrelli evidentemente no. Perché? Perché i produttori cercano un volto amico al ministero (e lo trovano in Borrelli) e perché l’ambizione di ministri e sottosegretari della Cultura è essere amici degli artisti o almeno non averli nemici. Borrelli è perfetto. Risponde anche di notte, è il medico della mutua del cinema italiano. La pratica è ferma? “Chiamo Borrelli”. Il film è stato bocciato? “Ora ne parlo con Borrelli”. C’era sempre lui, Borrelli, e lo raccontano al ministero, a consolare registi, “non ti preoccupare riprova la prossima volta”. E la volta dopo andava bene. E’ così che il sistema Tax credit si olia fino al tempo maledetto. E’ l’anno del Covid e naturalmente nessuno ricorda che tutti gli italiani erano keynesiani, chiedevano allo stato di pagare anche solo per far scavare buche. E lo stato paga.

 

Paga per far riempire sala cinematografiche collassate, paga per gli spot, “tornate al cinema”, “viva il cinema”. Un ufficio del ministero, la direzione  di Borrelli, viene inondato e si comincia a bollinare, bollinare, ma ogni bollo diventa moneta virtuale, come il Superbonus 110 %. Il sistema boccheggia e non esiste neppure una squadra di funzionari acchiappafantasmi per smascherare un truffatore come Kaufmann. Dovrebbe essere Borrelli a segnalare alle autorità eventuale odore di truffa ma Borrelli non avrebbe neppure tempo perché deve rispondere ai “maestri”, ai politici a cui chiamano “i maestri”, in molti casi vanitosi tromboni dal dubbio talento.

 

Nel giugno 2022, governo Draghi, il ministero vara la riforma che prevede il ritorno al Tax credit al 30 per cento e poi tre settimane di film girato, il credito fiscale erogato solo a film finito, bisogna anche avere un distributore in sala. I produttori, quelli che non vogliono essere sporcati da lestofanti, dicono, come Riccardo Tozzi, “ci stiamo, facciamola”.  La riforma viene lasciata sul tavolo del ministero, pronta, ma al ministero arriva Sangiuliano con i sottosegretari Sgarbi, Borgonzoni, Mazzi, un circolo di caccia, solo che il gioco è chi caccia chi. Per un anno e mezzo Sangiuliano litiga con Sgarbi a sua volta Mazzi cerca di strappare potere a Sangiuliano e Lucia Borgonzoni conservare la delega all’Audiovisivo. Per un anno e mezzo  gli uffici del ministero vengono bloccati perché bisognava cambiare la natura del ministero, l‘organizzazione dei dipartimenti.  Le nomine ballano, il ministero sbanda e risulta ingovernato. E va avanti così per tutta la durata, per quasi due anni. Si può acquistare quasi tutto, ma non l’armonia che fa la fortuna di un ministero. Si dimette Sgarbi, mai sostituito, si dimette Sangiuliano, si allarga Mazzi, si prova a restringere il perimetro di deleghe di Borgonzoni. Su una scrivania resta la riforma perché la pazienza non si vende ma l’indignazione tantissimo e permette di regolare conti interni. Adesso con la notte tutti i gatti sono neri.  Borrelli cosa è stato? E’ stato il braccio di un ministero che non è vero  sia il più bello del mondo. E’ assediato da barboni a cui puzza l’alito, mezze cartucce che hanno diritto di tribuna altrimenti “faccio un’intervista e dico che…”. Povero quel ministro, quel sottosegretario che deve rispondere al telefono e far credere ad accattoni di essere i nuovi Giorgio Strehler, difendere una categoria di esaltati, registi di matrimoni tutti convinti di essere  Fellini. 

 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio