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Dimenticare il modello albanese
Non solo decreto flussi. L'immigrazione come specchio delle svolte italiane
Dal decreto flussi all’Ue. La sinistra ha regalato alla destra la lotta contro l’immigrazione irregolare. Ma la destra non ha il coraggio di rivendicare la svolta europeista. Cortocircuiti. Viaggio nel grande specchio dell’Italia
C’entra il Consiglio dei ministri di ieri, certo. Ma c’entra anche la postura europea, c’entrano anche gli equilibri tra i partiti, c’entra la svolta che non vogliamo vedere, c’entra l’imbarazzo che non vogliamo studiare, c’entra il futuro che non vogliamo capire. Pensateci, solo per un attimo. Quello che proviamo a descrivervi oggi è come uno specchio. E’ lo specchio di quello che la sinistra non riesce a essere, e questo è evidente, ma è anche lo specchio di quello che la destra è, ma non riesce a rivendicare. E’ lo specchio di quello che la sinistra dovrebbe essere, se ci si riflette un istante, ma è anche lo specchio di quello che la destra è diventata, ma che per forza di cose non ha il coraggio di riconoscere fino in fondo. E infine è lo specchio anche di un altro fenomeno che ogni tanto affiora, con forza, nel dibattito pubblico, e che riguarda tutto ciò che ogni giorno la sinistra italiana sceglie, senza colpo ferire, di regalare alla destra, anche quando i temi tutto sono tranne che di destra. Il tema a cui facciamo riferimento, oggi, non è un tema come un altro, ma è uno dei temi più divisivi, più traumatici, più drammatici delle democrazie contemporanee: l’immigrazione, naturalmente.
In Europa, lo sapete, l’immigrazione è diventata la frontiera politica su cui si confrontano da anni i partiti di estrema destra e quelli mainstream. In America, lo avete visto, l’immigrazione è diventata la frontiera traumatica su cui si confrontano, a muso duro, le forze dell’ordine che rispondono a Trump e quelle che rispondono al governatore della California. E cercare soluzioni per provare a disinnescare il conflitto è una missione considerata proibitiva. L’elemento interessante che riguarda l’Italia – l’Italia in teoria guidata dai sovranisti xenofobi, almeno così li descrivono molti politici che si trovano all’opposizione – è che dall’inizio della legislatura il governo in carica sui temi dell’immigrazione è riuscito a mettere in campo una terza via fondata su tre pilastri: accordo con l’Europa, gestione non sovranista dei confini, scommessa sui flussi regolari. La strategia del governo è stata macchiata dal modello Albania, su cui torneremo fra qualche riga, ma al netto del pasticcio albanese l’elemento interessante che riguarda l’approccio scelto da Meloni & Co. sui temi dell’immigrazione è l’opposto di quello declinato in campagna elettorale. In questo schema l’Europa è un’alleata, non una nemica. In questo schema, i confini si possono governare, e non serve minacciare di chiuderli. In questo schema, l’idea che avere più immigrati in Italia possa essere un problema per i lavoratori italiani, “prima gli italiani”, è una sciocchezza, non è una verità assoluta e anzi è una tesi che rischia di colpire l’interesse del nostro paese. Ieri, lo sapete, in Consiglio dei ministri, il governo, senza rivendicarlo con forza, ha messo un altro tassello per rafforzare il terzo pilastro, quello relativo agli ingressi riservati ai migranti regolari, e lo ha fatto dando vita a un nuovo decreto flussi, che si aggiunge a quello che il governo aveva già fatto due anni fa: 500 mila ingressi programmati, tra il 2026 e il 2028, che si aggiungono ai 452 mila che erano stati già programmati tra il 2023 e il 2025. Nessun governo italiano, nella storia recente, ha mai programmato un numero così alto di ingressi regolari per motivi di lavoro come quelli previsti dal governo Meloni.
Gli altri due elementi che fanno parte dei tre pilastri sorprendentemente anti populisti e mainstream del governo Meloni sull’immigrazione si trovano in Europa. E si trovano all’interno di un trattato europeo validato dalla precedente Commissione. Il trattato sapete come si chiama: “Patto sulla migrazione e l’asilo”. Lo scopo principale del trattato è quello che forse ricorderete: provare a far fare un salto di qualità alle politiche dell’Unione europea in materia di migrazione, asilo, gestione delle frontiere, solidarietà e integrazione. E l’idea di fondo che si trova dietro al trattato è, come si legge, creare un quadro giuridico utile a bilanciare la solidarietà e la responsabilità tra gli stati membri, introducendo una solidarietà obbligatoria tra stati (ricollocamenti, contributi finanziari, supporto tecnico), stabilendo una valutazione annuale centralizzata dei flussi migratori, definendo un sistema unico di rimpatrio, rafforzando le relazioni con i paesi terzi per riammissioni e protezione umanitaria, fissando standard minimi vincolanti sull’accoglienza, promuovendo l’integrazione precoce e la tutela dei minori non accompagnati, prevedendo assistenza legale gratuita, riformando il sistema di Dublino, introducendo un meccanismo indipendente di controllo dei diritti fondamentali e imponendo piani di contingenza obbligatori (se il modello albanese fosse stato messo a terra dall’Italia nel momento dell’attuazione operativa del Patto, a metà del 2026, non vi sarebbe stato alcun conflitto giuridico, dato che il Patto sulla migrazione e l’asilo prevede la possibilità di utilizzare paesi terzi per poter contrastare l’immigrazione irregolare). La ragione per cui parlare di questo trattato è importante, nel giorno in cui il governo italiano sull’immigrazione fa un altro passo lontano dal populismo, è legata a una notizia totalmente ignorata dai quotidiani.
Due settimane fa, la Commissione europea è tornata a fare il punto sul trattato, la cui attuazione operativa è prevista entro la metà del 2026, e nel fare il punto si è concentrata su alcuni elementi importanti, esplicitandone i passaggi cruciali. Gli stati membri, si è detto nel report che ha accompagnato i lavori legati all’implementazione del trattato, non potranno più sottrarsi al dovere di sostenere i paesi sotto pressione migratoria e dovranno partecipare al meccanismo permanente di solidarietà, con ricollocamenti, contributi finanziari o supporto operativo. Agli stati membri, si è aggiunto, vengono imposti standard procedurali e legali uniformi, che dovrebbero ridurre il margine di discrezionalità nazionale nell’accoglienza, nell’esame delle domande d’asilo e nelle espulsioni. La cooperazione con i paesi di origine e transito sarà gestita in chiave europea, e questo toglierà agli stati il pieno controllo della diplomazia migratoria. In sintesi: più Europa, meno sovranismo. Il Patto sulla migrazione e l’asilo è esattamente lo specchio perfetto del fenomeno da cui siamo partiti per molte ragioni. La ragione più evidente riguarda il fatto che, tra i grandi partiti italiani, l’unico ad aver sottoscritto quel patto, insieme con Forza Italia, è stato Fratelli d’Italia. La ragione meno evidente riguarda il fatto che, tra i grandi partiti socialisti d’Europa, l’unico a non aver sottoscritto quel patto, esattamente come il M5s, come la Lega, è stato il Partito democratico, che nel momento in cui il trattato è arrivato in Aula, nella scorsa legislatura europea, ha scelto di non votare a favore. Il paradosso, come è evidente, è doppio e chiaro. Il Patto sulla migrazione e l’asilo, trasformando l’immigrazione da competenza nazionale in politica comune, con regole vincolanti, obblighi di solidarietà e controllo centralizzato, pur creando un sistema più rigido di controllo dei confini europei, ha un suo tratto di anti sovranismo esplicito, come lo è in fondo la scelta di aumentare ancora le maglie del decreto flussi. La sinistra italiana, che ha scelto di regalare il mainstream europeista a Giorgia Meloni su molti fronti, non si sente rappresentata da quel Patto perché considera ogni forma di governo delle frontiere, dei confini, e ogni tentativo di combattere la politica dell’accoglienza indiscriminata, come un’idea di destra. E così è riuscita nel miracolo di regalare alla destra ogni forma di politica finalizzata alla lotta contro l’immigrazione irregolare. Dall’altra parte, la destra italiana, avendo per anni alimentato tra i propri elettori l’idea di dover gestire ogni dossier legato all’immigrazione con la chiave della costruzione dei muri, con la chiave della lotta contro l’Europa, oltre che con la chiave del prima l’italiano e dopo lo straniero, pur avendo scelto di stare dalla parte del mainstream centrista, e anti lepenista, sull’immigrazione, in Europa, non ha il coraggio di rivendicare fino in fondo la sua scelta, perché farlo significherebbe dover ammettere che l’unico modo per combattere l’immigrazione illegale non è fermare l’immigrazione ma è governarla, anche a costo di consegnare all’Europa un pizzico della nostra sovranità, in nome della responsabilità comune. Il risultato di questi paradossi, di questi cortocircuiti, di questi imbarazzi – imbarazzi che in una certa misura saranno ripetuti nelle prossime ore quando il governo sarà chiamato a difendere la sua scelta anti populista fatta sul decreto flussi – offre una fotografia nitida di alcuni importanti equilibri che esistono oggi in Italia tra i partiti politici. Con una sinistra che dopo aver fatto molto per trasformare in politiche di destra alcune politiche semplicemente di buon senso ha regalato alla destra la possibilità di giocare la parte della forza europeista nonostante i molti scheletri nell’armadio dei sovranisti, che impediscono alla destra non lepenista di rivendicare fino in fondo la propria svolta europeista. In America, e in buona parte d’Europa, l’immigrazione è il terreno su cui si combattono guerre di civiltà. In Italia, la gestione dell’immigrazione offre molti spunti di riflessione, ma quello forse più controintuitivo, e importante, è legato a tutto quello che l’immigrazione riflette dell’identità dei partiti e delle coalizioni: specchio di quello che la sinistra non riesce a essere, ma è anche specchio di quello che la destra è, ma semplicemente non riesce a rivendicare.