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l'intervento

Bettini spiega perché il Pd sbaglia a opporsi alla separazione delle carriere

Goffredo Bettini

Non si tratta di fare la guerra ai magistrati, come troppo spesso avviene nella polemica pubblica. Ma di rimettere al centro il principio di equilibrio. Come nella nostra Costituzione. Come nella grande lezione del liberalismo di sinistra

Seppure è un tema aperto e controverso, io ritengo che la separazione delle carriere nella magistratura possa rappresentare un passo importante, persino doveroso, nella direzione di una maggiore terzietà del giudice. Non per sfiducia nei confronti della magistratura. Non per una deriva populista o vendicativa. Ma per un’idea di giustizia che non rinunci mai a dubitare di sé, che riconosca nella fragilità dell’imputato – spesso solo, spesso smarrito – una parte imprescindibile della democrazia. Sono cresciuto in un ambiente dove la giustizia non era una parola astratta, ma una materia viva, discussa, appassionante. Mio padre era un avvocato repubblicano, molto vicino a Ugo La Malfa, che spesso veniva a casa nostra, insieme a Oronzo Reale e ad altre grandi figure democratiche. In quelle stanze si parlava di diritto e libertà, ma non come slogan: come destino delle persone.

Da bambino ascoltavo, curioso, i racconti degli avvocati del tempo. Uno su tutti, Bruno Cassinelli. I primi minuti delle sue arringhe erano spiazzanti: voce aspra, tono inusuale. Ma poi… poi arrivava l’incanto. La logica serrata, la passione controllata, la capacità di toccare il cuore del problema con parole che non dimenticavi. O Nicola Madia, nel processo Ghiani e Fenaroli, quando iniziò rivolgendosi al presidente della Corte: “Chi è Raoul Ghiani?” Non una domanda retorica, ma una dichiarazione di principio: l’imputato è prima di tutto una persona, una storia, un dolore, non un oggetto del procedimento.

Papà mi ripeteva spesso una frase che allora sembrava paradossale e oggi mi pare una lezione altissima di civiltà: “Meglio dieci colpevoli fuori dalla galera che un innocente dentro”. Diceva anche che il potere giudiziario è sempre un potere, e come tutti i poteri ha bisogno di contrappesi, di cautele, di consapevolezza dei propri limiti. Il giudice, nel processo, rappresenta lo Stato. L’imputato è solo. La sproporzione di forza è immensa.
Non si tratta di fare la guerra ai magistrati, come troppo spesso avviene nella polemica pubblica. Ma di rimettere al centro il principio di equilibrio. Come nella nostra Costituzione. Come nella grande lezione del liberalismo di sinistra. Come ci ha insegnato Montesquieu, il quale temeva un potere giudiziario stabile, organizzato, chiuso, permanente. Lo voleva invece intermittente, aperto, invisibile. Utopia? Forse. Ma l’utopia, quando è nobile, serve a orientare i passi, anche quelli più piccoli.

La separazione delle carriere, in questa prospettiva, non è un totem. Non è una bandiera ideologica. E’ un tentativo di avvicinarsi all’equità. E’ un modo per rafforzare la fiducia nella giustizia, restituendo dignità tanto al giudice quanto all’imputato. E’ un gesto di rispetto verso l’intelligenza e la libertà degli uomini e delle donne che entrano in un’aula di tribunale. E che lì, proprio lì, cercano una verità che non sia vendetta. Ma solo, semplicemente, giustizia.

Goffredo Bettini è un dirigente del Pd