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L'editoriale del direttore

Dagli industriali, Meloni indica i criteri per giudicare il governo in economia. La serietà c'è, il resto?

Claudio Cerasa

I tre pilastri più uno (ovvero quello della “centralità”) ci permettono di ragionare su quelli che sono i successi e gli insuccessi della premier sul fronte economico. Risultati, due anni e mezzo dopo

Serietà, sì. Ma il resto? Il discorso tenuto ieri da Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria, a Bologna, arriva in un momento molto delicato per il governo italiano. Il governo Meloni ha da poco superato la metà del suo mandato e a questo punto della storia il modo in cui si valutano le parole di un primo ministro non può che cambiare rispetto al passato. Meloni, ieri, ha messo insieme una serie di elementi reali che riguarda lo stato di salute del nostro paese, ha concentrato il suo intervento sullo spread che si è dimezzato, sulla Borsa che è ai massimi, sul ritorno degli investitori stranieri, e a un certo punto del suo ragionamento ha scelto di suggerire agli osservatori una chiave precisa per valutare, dal punto di vista economico, l’azione del suo governo. Il nostro impegno, ha detto Meloni, è stato rivolto soprattutto a restituire a questa nazione “la centralità che le è propria sullo scacchiere internazionale”, e la nostra cura è stata “portare avanti una strategia economica basata sostanzialmente su tre pilastri, che sono la serietà, l’efficacia e una visione di sviluppo di lungo termine”.

 

                          

 

I tre pilastri, più uno, ovvero quello della “centralità”, ci permettono di ragionare su quelli che sono i successi e gli insuccessi di Meloni sul fronte economico. E se si sceglie di concentrarsi su questi punti il bilancio non è positivo. Sul tema della serietà, ci sono poche discussioni: il governo Meloni, in due anni e mezzo, ha tenuto il debito pubblico sotto controllo, ha rimarginato ferite aperte negli anni precedenti, come i bonus edilizi, e in un’Europa caotica, disordinata, instabile ha trasformato la sua prudenza in un elemento di credibilità oggettivo (secondo Ey, gli investimenti diretti in Italia, nel 2024, sono aumentati del 5 per cento, in un contesto europeo che ha visto un calo del 5 per cento). Sugli altri punti qualche problema c’è.

Per esempio: si può dire che questo governo sia stato “efficace” nelle sue politiche economiche? Alcuni dati non citati ieri da Meloni dicono: così così. Primo: il pil, lo sapete, è tornato a viaggiare intorno allo zero virgola, nonostante gli ingenti finanziamenti europei, e su base annua la crescita dell’Italia (+0,6 per cento) è inferiore rispetto alla media dell’Eurozona (+1,2).  Secondo: la produzione industriale, anche a causa di riforme disastrose come Transizione 4.0, ha registrato una contrazione per 25 mesi consecutivi, fino a febbraio 2025, e il governo non ha trovato un solo modo per aiutare le imprese a competere con più forza nei mercati globali. Se si prova a passare da un pilastro all’altro si potrebbe essere generosi sulla questione della visione di lungo termine, dando ragione a Meloni per aver risolto bene alcuni guai ereditati dal passato (Tim, Ita, Mps, disastro Ilva a parte). Ma a metà del suo mandato, per essere promosso, un governo dovrebbe aver messo in cantiere provvedimenti coraggiosi, anche a costo di essere impopolari. E in questo senso è difficile promuovere Meloni sulla visione di lungo termine  pensando a ciò che avrebbe potuto fare (e non ha fatto) su concorrenza, barriere interne, autodazi italiani (la sola mancanza di concorrenza in alcuni settori chiave del paese ostacola, secondo l’Ocse, la crescita per una cifra pari all’1,5 per cento del pil). E viene da chiedersi poi: ma quando Meloni si lamenta per gli eccessi burocratici dell’Italia, si ricorda chi c’è al governo da due anni e mezzo?

Si potrebbe tentare di essere generosi sulla questione della centralità italiana, e provare a essere un ponte tra l’Europa  e l’America  è un obiettivo ambizioso. Ma la realtà ci dice che la centralità dell’Italia in Europa è ostacolata da tre fattori: la nascita di un governo più duraturo di quello italiano (Germania), la centralità di paesi che investono di più sulla Difesa (Polonia), la difficoltà dell’Italia ad avere un’agenda che sia propositiva (agenda Draghi) e non solo interdittiva (basta Green deal). La serietà c’è, la capacità in economia di imporre una propria visione del futuro ancora no. E dopo due anni e mezzo non è un peccato veniale.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.