Una protesta a Napoli contro il piano per il riarmo europeo (foto Ansa)

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L'Italia e la Difesa: un impegno e un'opportunità

Vincenzo Camporini

Sedici paesi Ue chiedono di sforare il deficit per rafforzare la Difesa. Mentre l’Italia, tra incoerenze politiche e divisioni interne, rischia l’emarginazione strategica e industriale a livello europeo

Sedici membri dell’Unione Europea hanno chiesto di potere usufruire della clausola di salvaguardia prevista dal programma Readiness 2030 lanciato dalla Commissione, quello cioè che consente di sforare i limiti di deficit di bilancio per programmi di incremento delle capacità operative dello strumento militare. L’esempio della Germania, che per poterlo fare ha dovuto intervenire con un voto al Bundestag per rimuovere il vincolo nazionale preesistente, ha convinto la maggioranza degli altri stati membri, compreso il Portogallo, che, per la sua posizione geografica, meno di tutti è portato ad avvertire una minaccia diretta, ma che evidentemente avverte come cogente l’impegno alla solidarietà comune. 

 

Il provvedimento della Commissione ha un respiro strategico ampio, con obiettivo primario quello di offrire ai paesi che lo desiderano l’opportunità di far conseguire alle rispettive forze armate un ventaglio di capacità, auspicabilmente coordinate dalle istituzioni comunitarie come l’Agenzia europea della Difesa, che permettano un’armonica integrazione in un insieme efficace e credibile per la sicurezza collettiva, così come sancito dall’art. 42, in particolare al paragrafo 7, del Trattato di Lisbona, l’equivalente Ue dell’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico. E’ comunque tuttavia implicito che il tutto è finalizzato anche a consentire ai singoli paesi di incrementare la percentuale del prodotto interno lordo destinata alla Difesa, anche in previsione di quanto verrà proposto, ed eventualmente e concordemente deciso, nel prossimo vertice Nato di fine giugno. 
Fra i paesi che non hanno avanzato richiesta di usufruire di questa possibilità spiccano la Francia e l’Italia. La prima è già ora al 2,1 per cento e la situazione delle sue finanze pubbliche è tale da non consentire se non  ridottissimi margini di manovra. Ma Parigi è il solo paese dell’Unione a disporre di armi nucleari, la “force de frappe” voluta da De Gaulle, il che assicura alla Francia uno status particolare e di conseguenza un posto di primissimo piano nel quadro delle capacità difensive europee, a prescindere da altri parametri. Per l’Italia la situazione è invece molto più debole: venir meno a un impegno sottoscritto nel lontano 2014 (vertice Nato del Galles, post occupazione russa della Crimea, governo Renzi) fa venir meno ogni credibilità alla nostra iniziativa politica e sottrae forza alle nostre richieste di una visione della minaccia allargata al Mediterraneo. Quindi il mancato ricorso all’opportunità offerta viene percepito come un’assoluta mancanza di coerenza, anche per il fatto che fu proprio il nostro paese ad avanzare la richiesta di scomputare dai conti comunitari gli investimenti nella Difesa, sia da parte del ministro Crosetto sia dalla presidenza del Consiglio. Non fu facile sostenere questa tesi, per le resistenze opposte dai cosiddetti “frugali”. Ora, conseguito il risultato politico, tirarsi indietro appare ai nostri alleati non solo incomprensibile, ma come un evidente segnale di inaffidabilità.

 

E’ ormai ben chiaro che una concreta iniziativa per una capacità di difesa europea si potrà avviare solo in un’ottica di cooperazione rafforzata fra i paesi che lo vogliono e che ne sono capaci (art. 46 del Trattato Ue). E per essere giudicati capaci è ovviamente necessario rispettare determinati parametri e ottemperare agli impegni presi: il rischio concreto è che quando un’iniziativa seria in tal senso verrà avviata, per l’Italia ci sarà solo un posto in seconda fila, il che non sarà solo una questione di prestigio e di “voce in capitolo”, ma comporterà un ruolo ancillare per l’elaborazione delle capacità necessarie e quindi per una piena partecipazione del nostro comparto industriale. Verremo marginalizzati nello sviluppo delle tecnologie e nell’adeguato inserimento nelle filiere produttive, con danni occupazionali soprattutto nei settori ad alta qualificazione. Le diatribe interne all’esecutivo, rese palesi dal dibattito acceso tra il ministro della Difesa e quello dell’Economia, danno all’esterno l’immagine di un paese che non sa decidere e ad aggravare la situazione viene accarezzata la brillante idea di inserire fra le spese pertinenti alla Difesa voci che francamente lasciano perplessi, fino alle Capitanerie di Porto, che certo hanno una funzione vitale per il settore dei traffici marittimi, ma le cui attività assai difficilmente possono essere qualificate come militari. Tutto ciò non aiuta la nostra postura internazionale e ci fa perdere credibilità: non ce lo possiamo permettere.

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