storia ricorrente
Giorgia Meloni e gli altri, quando la sindrome del complotto porta alla paranoia
Spie, microspie, e la sindrome dell’accerchiamento che non riguarda solo questo governo ma viene da lontano
Giorgia Meloni non sarà né la prima né l’ultima a subire la sindrome dell’accerchiamento, quella strana paranoia che coglie tutti i potenti a un certo certo punto, che li porta a sospettare di chiunque, e infine a circondarsi solo di amici o (in certi casi) parenti. Dopo le ultime notizie secondo cui la premier vuole sentirsi più sicura con agenti, ascensoristi, scorte, mettendo davanti a tutti gli uomini del fido Pino Napoli, marito della fida segretaria Patrizia Scurti, tornano alla memoria tanti altri casi del genere o quasi del genere.
Se un sospettato di ordire complottoni contro Meloni è Matteo Renzi, va detto che l’ex presidente del Consiglio divenne famoso a un certo punto non per un poliziotto di fiducia bensì per una vigilessa. Antonella Manzione, che da comandante dei vigili urbani di Firenze finì a capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio (contestata dalla Corte dei Conti che dette parere negativo sulla nomina per mancanza da parte della candidata dei requisiti idonei). Ma non siamo certo nel “boccismo”, qui, semmai nella sindrome e paranoia che coglie i leader politici nei momenti di crisi (talvolta in quelli terminali). Se Re Ludwig II di Baviera alla fine dei suoi giorni si circondava solo di scudieri e a cena issava centrotavola così alti da non vedere gli esponenti del suo governo, e infine faceva arrestare l’intero esecutivo di Monaco, la tentazione dei governanti di fidarsi di nessuno viene da lontano. Ci fu appunto un tempo per Renzi il giglio magico, che a partire dal nome significava appartenenza territoriale, dunque non solo la vigilessa ma anche il fotografo, Tiberio Barchielli. E “il Lampadina” Luca Lotti, e il prode Carrai, e Bonifazi e naturalmente Maria Elena Boschi – nel caso del Giglio la dimensione tribale era data dall’appartenenza fiorentina o toscana al massimo. (segue a pagina quattro)
Ma sempre a base territoriale e a km zero c’era anche il tortello (o secondo alcune versioni tortellino) magico, quello di Pierluigi Bersani, il gruppo di emiliani tra cui il governatore della regione Emilia Vasco Errani, il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, piacentino, e un tale Mirio Fiammenghi, ravennate, consigliere regionale, che costituivano la falange attorno al maggiorente Pd. La definizione di “tortello magico” era di Massimo D’Alema che da par suo aveva i “lothar”, soprattutto Gianni Rondolino, Claudio Velardi, Nicola Latorre, secondo la definizione di Maria Laura Rodotà.
Ma il primo “cerchio magico” fu quello che nacque a sostegno e protezione di Umberto Bossi, all’epoca del famoso coccolone del 2004, quando la famiglia e pochi eletti si ritrovarono attorno al Senatùr: lì scoppiò e si impose per la prima volta la dimensione clanica che scavalca i partiti e le istituzioni, e che assomiglia a quella di oggi, che predilige il sangue e lo jus soli, la tribù del Torrino (il quartiere dell’Eur di Meloni). Idea e fattispecie inconcepibile nella Prima repubblica: in quell’epoca così remota i partiti avevano il ruolo della mediazione e della rappresentanza. E quando scoppiava lo sconquasso, i referenti del partito prendevano il controllo, e la famiglia semmai faceva un passo indietro, come nel caso del sequestro Moro.
Certo, c’erano anche allora gruppi tribali, c’erano gli avellinesi di osservanza demitiana e i toscani di Fanfani, ma la dinamica era più ariosa, perché ognuno doveva rendere conto al partito, alle correnti, alle tessere, ai territori. Del resto la tribalizzazione della politica va di pari passo con la sua crisi. Con quella dei partiti. O almeno con quella della prima repubblica. Chi c’era si ricorda gli ultimi giorni di Bettino Craxi asserragliato all’Hotel Raphaël, prima delle monetine, in balia di strani personaggi, tra oscuri presagi e manie di complotti – a un certo punto riteneva d’essere seguito, pedinato, forse da una Fiat Uno, bianca (era l’epoca in cui un’auto del genere era protagonista di luttuosi casi di cronaca).
Berlusconi, l’erede del craxismo, non ha invece mai avuto veramente un cerchio, le sue erano diverse e composite geometrie, da una parte l’azienda (coi suoi referenti, Gianni Letta, Confalonieri) dall’altra il partito, e poi i musici, i giocolieri, le favorite. Era, più che un cerchio, una corte multianello (grazie anche alla possibilità economica). Ma quando crollò anche la seconda, di repubblica, il partito più disintermediatore, i Cinquestelle, a Roma aveva il “raggio magico” della sindaca Virginia Raggi, che portò al crollo e all’ignominia della prima e unica giunta pentastellata della capitale (oltre che a qualche arresto). Il raggio magico aveva anche una versione digitale nella chat “4 amici al bar” su WhatsApp. Luigi Di Maio (ve lo ricordate?) disse: “abbiamo contro tutti, tutte le lobby”.
La mania del complotto non ha mai portato bene, è chiaro: segnala insicurezza, spesso prelude al crollo. C’è da dire che Giorgia Meloni è stata sempre coerente in questo, era sospettosa e timorosa di agguati fin dall’inizio, ha sempre considerato palazzo Chigi ventre molle di spie e microspie, preferendo gli edifici del gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia in via Uffici del Vicario. Il culmine della paranoia e del sogno simmetrico di un rifugio “contra mundum” nella politica italiana fu però il celebre “ridotto della Valtellina”: il progetto per un bunker salvifico per i vertici della Repubblica Sociale contro tutti i nemici nacque tra i gerarchi nel ‘44 con l’’idea di portarci Mussolini e tutti i fedelissimi, e pure le ceneri di Dante (noto intellettuale di destra). Non se ne fece nulla, e finì abbastanza male.
storia di una metamorfosi