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Da Columbia a Columbia

Il '68 non porta bene

Paragoni benevoli e troppa violenza

Maurizio Crippa

Occupazioni, campus, anticolonialismo. I rimandi testuali sono così numerosi che nessuno si è sottratto: è come il nuovo '68. Ma quasi nessuno prova a dire una cosa essenziale: quello non fu solo un allegro e positivo movimento libertario: aveva dentro di sé, da subito, i germi della violenza e dell'ipocirisia politica

Ce n’est qu’un début eccetera, la  Hamilton Hall come il Palazzo d’inverno eccetera, gli universitari del privilegio che sognano di buttare a mare gli ebrei con la stessa noncuranza istupidita con cui i loro nonni sognavano di trovare la spiaggia sotto il pavé. I rimandi testuali sono così tanti che nessuno si è sottratto al paragone: è come il ’68. Nessuno ha finora chiamato in causa il rimando per eccellenza, Fragole e sangue sullo sgombero della Columbia, 1970. 

Film del 1970, ispirato alla Columbia University occupata e sgomberata con  la forza (vedi l’ineffabilità del caso: l’università era ritenuta colpevole dagli studenti per i suoi rapporti economici e di finanziamento con l’apparato militare, a spese di spazi vitali che venivano sottratti alla comunità afro). Ma forse la dimenticanza è solo perché al momento siamo fermi alle fragole (biologiche eh, e senza packaging assassino dell’ambiente, se no gli occupanti non le accettano). Anche se Fragole e sangue era trasposto in California e il vero brutalone era Ronald Reagan, che aveva riportato l’ordine a Berkeley. Ma nessuno o quasi, Paul Berman pubblicato dal Foglio lo scorso martedì e pochi altri, è riuscito a sottrarsi a una sorta di equilibrismo valutativo morale e generazionale: è come il ’68, ma questo è diverso. Il movimento di vietato vietare e dell’èra dell’Acquario era libertario, ben pasciuto e occidentale, al massimo orientaleggiante; questo invece l’occidente lo odia, dal packaging al coffee al tifo per le dittature che sfidano il colonialismo e pazienza se stuprando le ragazze e impiccando i rapper: l’occidente colpevole non lo vogliono migliorare, lo vogliono buttare a mare. Indecisi, quasi tutti i commentatori, se i rimandi testuali parlino di una tragedia (o almeno una vicenda seria) che si rinnova trasformata in farsa, oppure di una allegra scampagnata libertaria, tra Bertoluccì e il Village, che rischia di rigirarsi in tragedia (Berman ha raccontato che i suoi docenti d’allora alla Columbia lo mettevano in guardia sulla cecità delle élite tedesche che non compresero l’avvento del nazismo).

I sessantottini, per chi scrive, non sono la generazione dei padri ma dei fratelli appena maggiori. Quel friccico libertario che ancora oggi scalda i cuori, e che ovviamente ha tanto cambiato le nostre esistenze, noi ultimi dei boomer l’abbiamo visto da lontano, sentito solo nei riff di chitarre psichedeliche. Forse per questo abbiamo avuto il tempo, tutto il tempo, di verificarne la parte di tragedia, di tastare l’uovo del serpente di una violenza covata nei campus e nella piccola bohème attorno alle università italiane. Ciò che accade ora negli atenei americani, e in modo irrimediabilmente gregario nei nostri, ha la stessa matrice: un salto da tragedia a tragedia, o per meglio dire da violenza covata a violenza che cova minacciosa. Il ’68 non è stato solo l’impeto salvifico di una generazione del benessere che cambiava i bisogni i diritti e i linguaggi; passò ai fatti, che si chiamarono spranghe e caccia al nemico nei cortei, che si chiamarono in Europa le Br e la Raf. Rifare il mondo valeva bene un poco di sangue sulle fragole. E questo del resto spiegavano i pessimi maestri. Nella sua scoperta approssimativa dei “popoli della fame che interpellano i popoli dell’opulenza”, per dirla con l’enciclica post coloniale datata 1967 di Paolo VI, il movimento internazionale del ’68 sposò come un dettaglio la causa dei massacri culturali di Mao, che del resto aveva già ammazzato milioni di cinesi per fame, in virtù dell’ideologia che assegnava una ciotola di fragole a ognuno, e di Pol Pot e di qualche altro despota. Oggi servirebbe il coraggio di dire che nei due movimenti c’è una stessa radice di violenza e travisamento, che voler estirpare il colonialismo che non c’è più in nome di un sud-globalismo caotico trascina con sé una confusione in cui ingiustizie vere e presunte, violenze vere e presunte sono assoggettate all’unica presunzione di avere in mano le chiavi della ragione. Ai tempi si inneggiava al Che ucciso in Bolivia, che un colpo d’occhio casuale ma degno di Mantegna aveva trasformato in icona. Era andato in Bolivia per addestrarsi a scacciare i norteamericanos, con la stessa furia con cui Khymani James vorrebbe addestrarsi ad ammazzare i sionisti. La dolce ala della giovinezza occupa più spesso gli incubi che i sogni.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"