Foto LaPresse

Viale Mazzini

La Rai vuole "affamare" i giornali, "cartastraccia". Al governo: "Togliete i fondi"

Carmelo Caruso

La Rai punta ai fondi dell'editoria, 110 milioni di euro che già in passato, con il governo Conte, erano stati decurtati. Si parla ormai "di perimetro aziendale". La dismissione della Rai non è più tabù

Sta per diventare un camposanto e si preoccupano di chi deve accendere le candele. Che il prossimo ad della Rai sia Sergio, Rossi o Chiocci è ininfluente. Il governo vuole che la Rai risparmi, venda tutto quello che può vendere: immobili, quote di Rai Way. La Rai risponde. Per recuperare il denaro che il governo le ha tolto vuole rifarsi sulla carta stampata, farne “cartastraccia”. I vertici Rai chiedono ora alla premier, e lo fanno con argomenti, per la destra convincenti, di “affamare” i piccoli quotidiani già stremati, le tv locali, di eliminare le agevolazioni fiscali a favore di cooperative ed editori che “guidano aziende private”. Si propone, e in maniera massiccia, di intervenire sul fondo per il pluralismo. La Rai di Meloni sta tentando Meloni: se si deve risparmiare perché pagare chi critica il governo? Gli  ostaggi sono i dipendenti Rai da tutelare per non “rivedere il perimetro”. Il prossimo ad rischia di  essere il curatore della vecchia Parmalat.

Ci sono due grandi fondi che sostengono la carta stampata. Il primo è quello chiamato “Fondo straordinario per il sostegno all’editoria”, un altro è quello per cui stanno lottando, proprio in queste ore, gli editori, e la loro federazione, la Fieg. E’ un fondo straordinario, attivato, durante il Covid. Il primo vale 160 milioni e 110 arrivano da una quota del canone Rai. L’altro fondo, lo straordinario, vale 140 milioni. Il primo è quello che  il Mef intende salvaguardare, il secondo è quello destinato, e si sa già, a saltare.  Il fondo era appunto “straordinario”, ma venuto meno, e per fortuna, il Covid, quelle ragioni non ci sono più. Sarebbe, e lo spiegano i funzionari che lavorano al dipartimento per l’Informazione e l’editoria, “il crollo definitivo del settore”. Il vecchio mondo antico, quello della carta, non potrà che reagire. Si eleverà il grado di conflitto tra quotidiani e governo. E’ probabile che qualcosa, di quel fondo straordinario, venga alla fine salvato. Ma la Rai soffia. Se gli editori dovessero spuntarla per uno ne rimane  un altro. E’ il fondo del pluralismo quello che fa  gola alla Rai. Lo alimenta la tv di stato. Con il governo Draghi è cambiato il meccanismo. Non è più la Rai che gira quelle risorse. Una quota del canone viene canalizzata in maniera diretta sul fondo. Si è fissata la cifra. 110 milioni di euro. Pure il numero, dopo il Superbonus 110 per cento, non porta bene. La Rai che deve presentare al suo azionista, il Mef, il piano industriale ricorda al governo che c’è un precedente. Durante il governo Conte, l’ad era Salini, e il fondo ai giornali venne decurtato. La Rai era riuscita a strappare 40 milioni di euro. In quegli anni, nel cda Rai, il membro in quota FdI, era Giampaolo Rossi, oggi direttore generale. Forse è meglio che si occupi, e davvero, di Pino Insegno, l’esodato Rai, che raggiunto al telefono dice: “Mi sembra surreale, ho un contratto con la Rai”. Forse è preferibile che se ne occupi Rossi al posto di Ciannamea, il direttore Intrattenimento, in quota Lega, che di fatto ha inserito in palinsesto  Insegno, con il bollo di Stefano Coletta, il direttore distribuzione, quota Pd. Coletta era uno che poteva dire: “Non mi piace, non ci sto”. Lo poteva fare. Non lo ha fatto. In Rai ci si diverte, ogni mattina, a leggere, inoltrare gli articoli (neppure il quotidiano comprano) dei giornalisti della carta stampata, quelli che fanno la “guerra santa” al posto loro. Per questi “dissociati Rai” tanto è sempre stipendio pieno. Rossi è il direttore generale e un dg, se ha bisogno di soldi dal governo, va per le spicce. Dato che la Rai non è più intoccabile e che la privatizzazione, per la destra, la sua messa sul mercato non è più un tabù, la Rai di Meloni dice a Meloni che il canone è un’imposta di scopo. Cosa significa? Significa che se lo scopo è pagare la Rai, per quale ragione il denaro deve andare ai piccoli quotidiani corsari, quelli che in questi mesi attaccano la Rai? Bisogna essere onesti. Il governo al momento non ha toccato il fondo per il pluralismo. Anzi, malgrado il vecchio canone sia sceso da 90 euro a 70, la quota di canone Rai canalizzata sul fondo è rimasta invariata. E’ scesa la somma (da 110 a 104) ma per i tagli lineari. A spalleggiare chi desidera fare “cartastraccia” sono pure i produttori dell’audiovisivo che con la Rai ci collaborano. Finora ci si è divertiti a scrivere di questa Rai rugbistica, di destra, quella che è abituata a smanacciare. Non c’è più da ridere. E’ quella destra che ha ricevuto direzioni Rai e che i giornali li disprezza, ricambiati a loro volta dai giornali. Non le sembra vero di poter proporre alla premier quanto piace alla destra, vale a dire  mettere a dieta i quotidiani che “fanno i liberali con il sedere degli altri”. Dalla loro parte, la parte Rai, hanno 13 mila dipendenti che ormai lavorano  con la paura di non arrivare alla pensione. Fermano chi scrive di Rai come se fossero condannati alla sedia elettrica. Ci sono pure le partite Iva, i collaboratori esterni che, con un’operazione sottile, la Rai di destra sta cercando di sedurre. Gli dicono: “Vi garantiamo noi”.  Sta in pratica per scoppiare un conflitto tra privilegiati e smandrappati, giornalisti tv contro giornalisti della carta, e tutto per avere ancora un morso di mondo, quello dell’informazione, un mondo  sempre più derelitto, aggredito dal web, dove gli unici direttori che contano sono quelli del personale. E’ il Medio Oriente degli straccioni e c’è chi gioca ancora al Mercante in fiera.

Di più su questi argomenti:
  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio