Migranti, Mes e non solo. Tutti i capricci europei che Meloni non può permettersi, dopo questa Nadef

Valerio Valentini

Bisogna convincere Bruxelles della sostenibilità dei conti, nonostante le furbizie contabili di Giorgetti su crescita e privatizzazioni. Scholz, Macrone Sanchez hanno interesse ad accelerare su immigrazione e Patto di stabilità. Se la premier punta a sabotare, come sul Fondo salva stati, complica il negoziato sulla Finanziaria

Le ragioni del buon senso direbbero che, se pure c’è mai un momento in cui conviene berciare contro l'Europa da Palazzo Chigi, questo è forse il meno opportuno. Con una Nadef scivolosa, una legge di Bilancio da imbastire senza risorse se non quelle che possa garantire il debito, con quel che ciò significa nel rapporto coi mercati e con  Bruxelles. E però, si sa, la campagna elettorale segue ragioni che il buon senso non conosce. E dunque eccoci qui, a bisticciare con Berlino, a giocare la parte di chi si impunta sui migranti e fa il sabotatore  sul Mes.

“Bisognerà saper parlare con la Commissione, rassicurare i mercati”, diceva ieri coi suoi colleghi di FdI, commentando i primi dati della Nadef, Giulio Tremonti. Solo che, se gli indizi di queste ore vanno presi sul serio, non pare si stia facendo molto, al governo, per ingraziarsi Bruxelles. Perché la foto consegnata alla stampa continentale, ieri, è quella di un’Italia che frena mentre altri vorrebbero accelerare. Et pour cause: perché, al di là dei singoli torti e delle ragioni, trovare soluzioni è ciò di cui tutti i governi, puro loro in procinto d’imbarcarsi in campagna elettorale, hanno bisogno in patria. Emmanuel Macron, ad esempio, nell’approvare il Patto sulle migrazioni anche col voto di Giorgia Meloni avrebbe una leva politica da sollevare contro Marine Le Pen: “Se perfino la destra italiana lo vuole…”. Pedro Sánchez ha smania di riempire di contenuti il suo semestre di presidenza del Consiglio dell’Ue, così da rafforzare le sue ambizioni di conferma alla Moncloa. Di qui la sollecitudine sul Patto di stabilità e, da ieri, su quello per i migranti.

Tema, quello dei migranti, su cui Olaf Scholz vuole stroncare le tensioni interne alla sua coalizione, chiudendo la partita il prima possibile. E’ per questo, allora, più che per la pur ragionevole richiesta di approfondire alcuni punti del testo, il prendere tempo da parte di Matteo Piantedosi, che ieri ha lasciato il Consiglio affari interni senza dare il proprio assenso al nuovo Patto sui migranti, rischia di indisporre le varie cancellerie. 

E soprattutto d’indisporre il cancelliere, cioè Scholz. Che, di fronte all’azzardata lettera di protesta di Meloni sul sostegno tedesco alle ong, s’è limitato a lasciar trapelare un “a Roma sapevano  da tempo” che, da solo, vale a smontare le lagne di Lega e FdI. E la freddezza che ha caratterizzato l’incontro tra Antonio Tajani e Annalena Baerbock ieri a Berlino – freddezza che s’è prolungata ben oltre la conferenza stampa congiunta dei due ministri degli Esteri, e che ha provocato un certo imbarazzo anche nei rispettivi staff – sta lì a dimostrare che non sempre si può giocare con la diplomazia per meri fini di competizione interna.

E neppure si può giocare ai piccoli sabotatori sul Mes. Non a caso ai diplomatici italiani di stanza a Bruxelles sono state riferite le lamentele che, nei giorni scorsi, il presidente del Fondo salva stati, Pierre Gramegna, ha registrato nel suo incontro con la ministra delle Finanze finlandese sui ritardi nella ratifica. Ulteriore segnale – dopo la sessione ad hoc dedicata all’Italia nell’ultimo Ecofin di metà settembre – di un’insofferenza europea che sconsiglierebbe altri ostruzionismi sul via libera di governo e Parlamento al nuovo trattato del Mes. Su cui, c’è da scommetterci, il primo a mettersi di traverso, per mettere in difficoltà Giorgia Meloni, sarà Matteo Salvini. “Il Mes? A noi Giorgia ha sempre detto che ratificarlo sarebbe  un tradimento alla patria…”, se la ride coi suoi confidenti il segretario della Lega. Il quale del resto, se gli si chiede della Nadef e del deficit da giustificare, scrolla le spalle: “La Commissione? La Commissione se ne farà una ragione”, dice, sapendo che non dovrà essere lui a spiegarla, quella ragione, a negoziare un via libera su quei 14 miliardi di maggiore passivo nel bilancio, su quella traiettoria chiara di diminuzione del debito tracciata da Mario Draghi che diventa un ghirigoro, un arabesco. Lui, Salvini questi problemi non se li pone. E pazienza se la sua volontà di “tenere il punto” per mettere in difficoltà Giorgia Meloni “da destra”, come dice lui, finisce per mettere sulla graticola il suo stesso uomo dei conti, Giancarlo Giorgetti, che dovrà invece convincere i colleghi ministri dell’Economia e delle Finanze su un altro “punto”, un punto in più, quello che verosimilmente si risolverà l’aumento del deficit – stimato nella Nadef a un +0,7 – se le stime di crescita generose per il 2024 (+1,2 per cento) e l’illusionistica cifra di 20 miliardi di ricavi da un supposto piano di privatizzazioni dovessero rivelarsi per quel che appaiono, e cioè furbizie contabili.

“A Bruxelles ci sono politici, comprenderanno la situazione, come la comprendono molti colleghi ministri delle Finanze europei”, dice Giorgetti, provando a rassicurare sull’esito delle trattative con la Commissione. Il che, però, illumina un altro paradosso sovranista: quello di invocare un negoziato più politico sui vincoli fiscali e poi osteggiare una riforma del Patto di stabilità che proprio nei negoziati politici condotti tra la Commissione e i vari stati membri ha il suo più significativo elemento di novità. Perché in fondo anche questo è un sabotaggio che l’Italia non può permettersi: quello di giocare al rinvio sul nuovo Patto insistendo con pretese insostenibili. Il regolamento proposto dai commissari Gentiloni e Dombrovskis imporrebbe a Meloni e Giorgetti di contrattare un percorso di riforme e di riduzione della spesa, è vero: ma se quel regolamento non venisse varato entro l’autunno, per giudicare la sostenibilità della manovra italiana non ci sarebbero che i parametri contenuti nelle raccomandazioni di Bruxelles. E quelli, in ogni caso, vedrebbero l’Italia in difetto, per non dire in infrazione.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.