Tra Draghi e Macron. L'Eliseo cerca Meloni per il Patto di stabilità, ma lei diffida

Valerio Valentini

Da mesi Parigi bussa a Palazzo Chigi, con scarsi esiti. La premier insiste con le rivendicazioni oltranziste sulle regole fiscali, sfiducia Gentiloni e cerca soluzioni complicatissime. I commenti dei macroniani all'intervento dell'ex presidente della Bce

L’asse che c’era è stato disfatto, forse rinnegato. Le alleanze alternative si  stenta a vederle. E lì nel mezzo, come sospesa, con le sue inafferrabili rivendicazioni in mano, sta Giorgia Meloni, a una settimana dall’appuntamento decisivo sulla riforma del Patto di stabilità. E sì che da Parigi una mano continua a essere tesa: se n’è incaricata  la segretaria di stato Laurence Boone, di ricordare che la convergenza d’interessi tra Italia e Francia sul tema è troppo evidente per essere ignorata. Che poi  è quello che pensa anche Mario Draghi. E non da oggi, come ben ricorda Emmanuel Macron.

E infatti dall’Eliseo è così che commentano, senza commentarlo, l’articolo dell’ex presidente della Bce sull’Economist. Con un semplice rimando a un altro intervento, quella volta a doppia firma, uscito sul Financial Times nel dicembre del 2021. Lo avevano scritto, insieme, Draghi e Macron, come protomanifesto di una nuova Unione europea, proprio pensando alla riforma del Patto di stabilità che avrebbe dovuto essere. “E in quel solco che va iscritto, crediamo, il nuovo articolo di Draghi”, ci spiegano i francesi del gruppo di Renew al Parlamento europeo.

Solo che quel solco l’Italia ha smesso di percorrerlo. Imboccando vie diverse, poco battute, con destinazione incerta. Rinnegando, o più semplicemente lasciando decadere, quel patto che pareva obbligato, tra Roma e Parigi, sul Patto di stabilità. E si spiega anche così l’insistenza con cui la segretaria di stato francese per gli Affari europei, nelle settimane scorse, è tornata a invocare quell’intesa. Lo ha fatto anche al Forum Ambrosetti. E’ lì che Boone ha detto che “la proposta avanzata dalla Commissione garantisce un buon equilibrio tra crescita e investimenti da un lato e sostenibilità delle finanze pubbliche dall’altro”. Poi, proprio in vista dell’Ecofin di metà mese in Spagna, dove la trattativa sul Patto di stabilità entrerà nel vivo, Boone è andata oltre nel difendere la proposta della Commissione come “un compromesso accettabile”. Criticando, sì, le pretese di maggior rigore da parte della Germania, ma al contempo stigmatizzando l’atteggiamento oltranzistico di chi, in nome di una maggiore flessibilità, spera in una contrapposizione tra i paesi del nord e quelli del sud.

E non si tratta di tentativi di persuasione estemporanei. Da Parigi, in questi mesi, si è più volte tentato di stabilire una cooperazione col governo Meloni sul tema delle riforme fiscali. Dispacci arrivati a Palazzo Chigi direttamente dall’Eliseo, e soprattutto un intenso lavoro diplomatico avvenuto tra le delegazioni dei due paesi a Bruxelles. L’obiettivo era quello di unire le forze, di coordinarsi per evitare che, proprio nel rimettere in discussione la proposta della Commissione, si agevoli paradossalmente la strategia di chi – a Berlino, certo, ma anche nei vari paesi nordici governati da esecutivi di destra – vorrebbe rendere quella proposta più rigida sul piano del risanamento dei conti dei paesi indebitati.

E tuttavia quasi mai queste sollecitazioni che arrivavano da oltralpe hanno ricevuto riscontri concreti. Un po’ per quella pervicace diffidenza antifrancese che anima i vertici di Palazzo Chigi – dove, non a caso, ricordano Boone soprattutto per quei messaggi ben poco amorevoli inviati al neonato governo Meloni – e un po’ anche per una strana convinzione, condivisa dalla premier e dal ministro dell’Economia, di poter ottenere di più e meglio, nel negoziato sul Patto di stabilità, puntando al sabotaggio dell’intesa. Minacciare cioè, in breve, di impedire un accordo per l’entrata in vigore delle nuove regole entro la fine del 2023 così da strappare l’agognato scorporo degli “investimenti strategici” (cioè quelli per la transizione ecologica e la difesa) dal calcolo del deficit. Il tutto confidando in una qualche imprendibile convinzione, se è vero che la Commissione ha già ribadito, e con toni perentori, che una proroga della sospensione delle regole per il 2024 è esclusa, e se è vero che l’ipotesi di ottenere uno scorporo delle spese per investimenti è considerato improponibile da una buona metà dei partner europei, e forse più, guidati dalla Germania.

Perché sarà pur accettabile dire, come fa un ministro meloniano, che “in fondo anche Draghi riconosce che con le attuali regole, e pure con quelle che la Commissione propone d’introdurre, le spese per transizione ecologica e difesa può permettersele solo la Germania, e gli altri restano a guardare”. Ma è altrettanto evidente che, come notano esponenti francesi del gruppo di Renew, che Draghi “suggerisce di superare questa anomalia con un’integrazione fiscale ancora più coraggiosa e una condivisa di sovranità più convinta, ipotizzando che sia l’Unione, col suo bilancio, a finanziare le spese strategiche, lasciando ai singoli stati il diritto e il dovere di badare all’ordinario”. E insomma Draghi “propone un’Europa davvero federale”, che è cosa ben diversa dall’invocare, come fanno i sovranisti italici e non, una sorta di Europa che dovrebbe essere, se è, “confederata”, qualsiasi cosa sia, in cui non si capisce perché si dovrebbe pretendere che i tedeschi paghino con le loro tasse le pensioni anticipate di Quota 41 e i disastri del Superbonus. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.