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Il Foglio Weekend

Cosa rimane dei Prodi, i Kennedy di Bebbio

Michele Masneri

Il 2023 è stato l’annus horribilis della famiglia di Romano Prodi. Case, chiese e biciclette di una dinastia. E spunta un erede, don Matteo

A uno sceneggiatore che mettesse, in una “Succession” o altra serie però italiana a tema dinastie la morte di Silvio Berlusconi con relative esequie teletrasmesse subito succeduta da quella della moglie del suo rivale che per un po’ è stato più acerrimo, Flavia Franzoni Prodi, un produttore direbbe: anche meno, troppo telefonato. Invece è andata così, e a giugno, se il 14 andava in scena nel Duomo di Milano l’ultimo saluto al Cav. con diretta del Tg5 e lutto nazionale, e il mondo in grigio (lo Stato) e l’altro mezzo in blu (Mediaset), a presenziare, due giorni dopo a Bologna un altro mondo più che altro marrone si radunava per il funerale della moglie di Prodi. 

 

Si è sempre pensato di scrivere un’antologia di funerali, cerimonie che spiegano un defunto e un paese meglio di tanti altri riti, certo meglio dei matrimoni, un po’ perché un funerale come diceva l’Avvocato Agnelli è l’unico party a cui si può arrivare senza essere invitati (non sempre). Così ecco due mondi paralleli, quello dei Berlusconi e quello dei Prodi, dinastie così diverse ma con qualche punto di contatto. Intanto, come tutti sanno, Prodi, Romano, nato il 9 agosto 1939, è stato l’unico sfidante del centrosinistra a battere due volte Berlusconi Silvio, nato il 29 settembre del 1936. Due famiglie di piccola borghesia, una fiorente a Milano, l’altra a Scandiano, provincia di Reggio Emilia, polo da sempre della piastrella, porta per la montagna, oggi ricca di capannoni e rotonde. Poi le mogli; Flavia Franzoni aveva conosciuto il suo Romano quando lui era il suo professore, di Economia, a Bologna, e non l’aveva più lasciato. Sobria, soberrima, al suo fianco, con le gonne ampie e i libri sottobraccio o le borse della spesa  della Coop anche quando era stata la moglie del presidente del Consiglio. Un mondo marrone, appunto. Che differenza, naturalmente, con le donne del Cav., nei colori lucidi e scintillanti.

 

Lasciamo perdere le più millennial,  ma anche le impalmate o impalmande. Simmetrico estetico con la prorompente Bartolini Miriam in arte Veronica Lario (da Veronica Lake), che pure sedeva in disparte, prodianamente, nel Duomo.  Che differenza pure con Marta Fascina, con la sua estetica Eva Kant. Già, l’estetica. Perché se la politica pare una dimensione superata per entrambe le vicende, quella Berlusconi e quella Prodi (a meno di discese in campo di eredi che al momento paiono improbabili, ma sono parte del tema), quella estetica è stata una delle faglie che hanno diviso il paese in due negli ultimi trent’anni a partire dal 1996 fatale, quando “il Professore”, così è chiamato, scese in campo e vinse. In pullman. Se il Cav. aveva a disposizione l’armata d’acqua e di aria coi jet e gli elicotteri e le barche e le ville, con all’epoca sgambate alle Bermuda e vacanze sul veliero di Previti “Barbarossa”, il Professore – soprannome principale di Romano Prodi  -  viaggia da sempre su gomma, gomma proletaria.

 

Nel 1996 si mise in testa di sgominare l’Italia appunto con un bus che era a colori ma sembrava in bianco e nero. “Un vecchio pullman usato col logo dell’Ulivo seguito dalla Duna del settimanale satirico Cuore, con gli inviati di Michele Serra, che ci seguiva”, racconta al Foglio Serse Soverini, per anni braccio destro del Professore,  già deputato Pd poi Azione. “Il pullman all’inizio cominciò a fermarsi in piazze e piazzette italiane, 3 o 4 incontri al giorno, poi la crescita fu travolgente”. Oltre il pullman c’è la bici, sport povero, sport di fatica, che da sempre appassiona il Professore. La bici è stata anche fatale alla dinastia, con l’incidente tre anni fa a Matteo Prodi, detto Matteino, nipote di Vittorio, fratello di Romano (i Prodi sono tantissimi, nove fratelli con Romano, quasi tutti docenti universitari, tutti religiosissimi, talvolta sacerdoti). 


Ma torniamo ai funerali di Flavia. Se in Duomo un monsignor Delpini con un’omelia molto analizzata e studiata da tutti certificava che il Cav. era stato “un uomo”, a Bologna il cardinale Matteo Zuppi, simbolo in sé di prodismo, bolognesità, dove la bolognesità vuol dire cristianesimo temprato da istanze sociali (del resto è la città di Dossetti), faceva l’elogio di Flavia Prodi come di un mondo che è la quintessenza del prodismo: “era riservata”, ha detto il cardinale. “In un mondo spesso sguaiato, di vanagloria, che riduce l’amore ad apparenze, Flavia preferiva la solida vicinanza e la delicatezza - ha proseguito - partendo proprio dai più fragili”. Anche la morte è summa di prodismo: avvenuta, per un guaio cardiaco, su un sentiero verso un santuario. 

 

Lei aveva sempre evitato di farsi chiamare col cognome del marito, il che con una certa nemesi era poi diventato una specie di assist a una delle prime fake news in un mondo ancora analogico e pre-complottistico: quando si disse, e si scrisse, che il cognome Franzoni la accomunava alla micidiale mamma che aveva ammazzato il figlioletto Samuele nella ferale Cogne.  Raccontano al Foglio che Flavia Franzoni manteneva però una presa su Bologna, un potere sulla città, dietro le quinte ma non troppo. E del resto  potere e presa sulla città sono una caratteristica “dei” Prodi, che sono stati e sono tantissimi. A marzo è morto un altro dei fratelli di Romano, forse il meno conosciuto, si chiamava Quintilio. Faceva l’architetto (presidente dell’Ordine locale, del resto il ruolo pubblico non può mai mancare in casa Prodi) e aveva disegnato la stessa chiesa di Colombaia di Carpineti, nella montagna emiliana, dove è stato salutato, una piccola chiesa che sembra quasi un fienile di quelli qui così frequenti.  Presenti i due parroci di casa, don Matteo (figlio di Vittorio, da non confondersi con Matteino, nipote) e don Sergio (figlio di Giovanni, il primo dei Prodi, il più anziano dei fratelli, mancato nel 2010. Un altro Prodi docente universitario, matematico insigne alla Normale di Pisa, città dove don Sergio è rimasto a officiare).  Poi dei fratelli di Romano si ricordano Giorgio (1928-1987), oncologo, Paolo (1932-2016), storico, tra i fondatori della rivista il Mulino, altra piattaforma superprodiana bolognese; e ancora Franco (1941), fisico, famoso per le sue posizioni clima-scettiche. E ci sono anche due sorelle, Fosca (1931) insegnante di matematica e Maria Pia (1926), neuropsichiatra.

 

Ma tornando a Quintilio, l’architetto di casa, era stato colui che aveva restaurato il castelletto di Bebbio, a Carpineti. Un castelletto non avito ma venduto dalla famiglia Pignatti Morano ai Prodi nel 1969, tra i caseifici del Parmigiano Reggiano delle mucche ormai munte dagli indiani, unici che contrastano lo spopolamento dei borghi locali, e i calanchi e la Pietra di Bismantova. Paesaggi danteschi, aria buona, salite toste. Racconta chi c’è stato, a Bebbio, che non è certo un buen ritiro da feudatari. Tra le sottili torrette ci sono grandi camerate coi letti a castello in cui i parenti Prodi, anzi la “cuginaglia” come la chiamano loro, si riunisce ancor oggi ogni estate, più di cinquanta parenti. La mattina ci si alza presto, si mangia in grandi tavolate, si segue una messa nella grande aia e poi via tutti in bici in formazione compatta (a segnalare che non siamo in un seminario c’è una piscina).

 

La vita da queste parti si misura in  diciotto, trentasei, quarantotto, come i mesi di stagionatura del Parmigiano Reggiano, l’oro di queste valli. Il mondo prodiano marrone è qui, una versione boy scout del democristianesimo lombardo o veneto. Un ulivismo che è Dc più Pci con un tocco di bolognesità, format di vita serio ma non penitenziale, con una spruzzata di slow food e di America (tutti i fratelli Prodi a un certo punto hanno studiato o insegnato un po’ negli Stati Uniti), Ivy League più tigella, tanti preti in famiglia ma con l’accento bolognese-Maxibon. Oltretutto, per tornare all’analogia con Berlusconi, questi preti esistono davvero, si sono visti, a differenza delle fantasmatiche zie monache del Cav, sempre e solo evocate. 


A Bebbio, tra le preghiere e l’erbazzone, le conversazioni possono volgere sui percorsi micidiali effettuati in bici (“Siamo stati su sul Cerreto, abbiam fatto centocinquanta chilometri”), a: “questo mi devo ricordare di dirlo a Tony Blair”, perché alla fine lì tra quei tavoli francescani il potere c’è sempre stato, vero. Potere locale, a chilometri zero, e internazionale, quando per esempio Vittorio, altro fratello mancato nel 2023 anno veramente horribilis per la stirpe, era presidente della provincia di Bologna, e Romano presidente della Commissione Ue, insomma un von der Leyen di Scandiano. Tutti questi castelletti della zona erano poi un tempo torri di avvistamento di Matilde di Canossa, von der Leyen dell’epoca sua, Carpineti era la sua residenza estiva, dunque potere, dissimulato tra i monti e i seminari di Marola e poi i caseifici. Il castello, o castelletto di Bebbio, è quanto di più lontano da un Arcore o da una villa Certosa si possa immaginare (ma al mare, il Professore è tornato in questi giorni, per la prima volta senza la moglie, a Castiglione della Pescaia, anche qui luoghi simmetrici rispetto all’epopea berlusconiana: con toccate persino a Capalbio, ma sempre sudando, in bici nella Maremma sobria rispetto alla Sardegna con l’erba all’inglese e il vulcano finto). 

 

A Carpineti, magnifico paese, ci andavo invece da piccolo, i miei hanno una casa. Mi ricordo. “C’è Prodi”, si spargeva la voce, ed ecco il nugolo di ciclisti che veniva su da Scandiano, e poi si andava una sera alla festa dell’Unità (PCI) e l’altra alla festa dell’Amicizia (DC) più che per cinismo politico per saggiare la qualità dei tortellini anzi cappelletti, e qui era più buona la tigella e là lo gnocco, e si sbaglierà ma in questa ricetta, tra buona amministrazione e grassi a chilometro zero c’è parte del prodismo, una ricettina fatta di equidistanza che lo portava a identificarsi con un’Italia profonda, che magari aveva un papà fascista –  del resto i fratelli Prodi con quei nomi: Romano, Vittorio, non dovevano aver avuto un upbringing proprio di sinistra  - e  un altro partigiano, ma a tavola non si scherzava, si sapeva come stare, seduti dritti. 

 

E poi l’impresa. Capitalismo ben temperato. C’è una storia bellissima a Zola Predosa, in provincia di Bologna, dove era parroco Matteo Prodi, figlio di Vittorio. Qualche anno fa fece scalpore un signore che lasciò la sua azienda, la Faac (ricorderete, cancelli elettrici, un simbolo degli anni Ottanta, col leone che ruggisce nel deserto) alla diocesi di Bologna. I parenti fecero causa. Alla fine la Diocesi ha vinto, ha liquidato tutti, e ora gestisce i cancelli (elettrici) del cielo. Bologna è anche così, il prodismo è così, con Nomisma, centro di ricerche di mercato, e vangelo (Matteino, il povero nipote caduto in bici, raccontano le cronache, possedeva non una ma ben due bibbie).
 

“E’ l’ecumenismo di Prodi. Prodi era l’unico che i comunisti non percepissero come democristiano ma che i dc non potevano considerare comunista” dice al Foglio Pier Ferdinando Casini, altro post democristiano bolognese doc che ha sfiorato la suprema magistratura quirinalizia come Prodi. Prodi cadde con la famosa congiura dei 101 nel 2013, Casini l’anno scorso.  Però Prodi era un democristiano atipico come il cancello elettrico nel deserto. “Sì, era democristiano ma non prendeva parte alle dinamiche del partito. Era un tecnico, messo lì inizialmente da De Mita nella famosa stagione dei professori. Alla mitica sede della Democrazia cristiana bolognese di via San Gervasio, io Prodi non l’ho mai visto”.  Non l’hanno visto arrivare. “Romano oggi è una riserva della Repubblica. E dell’Europa. Ha avuto un ruolo che pochissimi altri hanno avuto”, dice ancora Casini. Attenzione però a fare il santino. “A volte gioca ad apparire ingenuo ma non lo è affatto: d’altronde se lo fosse davvero non avrebbe avuto il fantastico cursus honorum che ha avuto. Gli piace apparire fintamente disarmato ma è molto smaliziato. Se era buono Berlusconi non lo batteva due volte”. A proposito, come erano i rapporti con il Cav.? “Inesistenti, direi. E filtrati sempre da Gianni Letta. Il quale con Prodi conserva un ottimo rapporto”. 


Il buonismo percepito di Prodi, dato dalla postura e dal fisico, insieme all’ecumenismo di scuola bolognese aveva dato adito a una delle “maschere” più efficaci della seconda repubblica. “Il mortadella". Fu soprattutto il geniale Corrado Guzzanti ad affibbiargli quel nickname: il Professore in chissà quale passaggio del suo incredibile cursus honorum accarezzava una mortadella al guinzaglio, come un cagnolino.  


“Veramente fummo noi ad autodefinirci mortadella boys”, dice al Foglio Serse  Soverini. “Fu in una delle prime interviste al Resto del Carlino”.  Prodi, uomo della prima repubblica ma percepito della seconda (non l’hanno visto arrivare), sapeva bene che un soprannome è garanzia di rilevanza, e che querelare i vignettisti non è chic. Lui la difese, la sua mortadellitudine. Avere un avatar voleva dire contare qualcosa. Voleva dire esistere. “Mi ha creato lui”, come Andreotti a Forattini, non arrivò a dirlo, a Guzzanti. Ma lo apprezza. Forattini Prodi lo ha sempre ritratto invece come un prete simpatico, con la veste nera, un po’ sputazzante. Nel 2013, all’evento “MortadellaBò, la kermesse dedicata al caratteristico salume del capoluogo emiliano”, Prodi ci scherzava ancora su: “E’ il soprannome che mi hanno dato e ne vado orgoglioso”. “La mortadella da cibo proletario si è raffinato. E’ un po’ il cammino dell’Italia, la mortadella. E io spero di aver seguito lo stesso cammino”. 

 

La mortadella si mangiava anche, a palazzo Chigi, nella prima stagione prodiana, nel 1996. Si arrivava dal breve governo tecnico Dini e dal 1994 del Cav., “e Berlusconi aveva abolito un fondo abbastanza ingente per le spese della presidenza della Repubblica, quindi era tutto all’insegna della grande sobrietà. Affettati, appunto, la sera, quando finito il lavoro si andava nell’appartamento in dotazione”, racconta sempre Soverini. “Una volta ogni dieci giorni, al massimo, come lusso, la tartare di manzo da Fortunato al Pantheon”. Insomma, sempre un po’ campeggiatori, anche se il vero campeggio si è sempre tenuto a Bebbio.  E di nuovo si torna all’Emilia, al potere locale, alla città. Una dimensione che il Cav. non ha mai avuto, avendo base mediatica, televisiva, dunque per definizione aerea e apolide. Milano l’ha sempre percepito come un outsider e la Brianza ha le ville, non i comitati civici. I Prodi invece hanno una città, oltre al contado.   

 

“Prodi col funerale della moglie ha avuto una solidarietà della nostra città e del paese che non ha eguali”, racconta sempre Casini. In effetti erano presenti anche ministri del governo Meloni, come Anna Maria Bernini e Matteo Piantedosi oltre allo storico antagonista Massimo D’Alema. Più Elly Schlein, grande “protetta” prodiana, più tutta la famiglia, che da sola occupava quasi cento posti. Famiglia molto agonistica, raccontano al Foglio, e non solo in bici. Tifosi di basket in una città appassionata a quello sport, ma tengono alla Virtus, la squadra dei ricchi, della borghesia, una specie di Lazio nella eterna contrapposizione calcistica della capitale, mentre la Fortitudo Bologna è la squadra delle parrocchie. Sono i Kennedy bolognesi, in un certo senso. E se Bebbio è la loro Hyannis Port, qualcuno potrebbe pur pensare a un “nuovo” Prodi in politica, o nella scena pubblica, tra le decine di nipoti. Romano ha due maschi: Giorgio, economista a Ferrara, e Antonio, ricercatore a Bologna. 

 

Altra scena, altro funerale. Quello del fratello Vittorio, mancato il 23 luglio. Era religiosissimo, come tutti i Prodi, “ed era lui quello veramente buono dei fratelli”, raccontano al Foglio. Presidente della provincia di Bologna, famoso per i crocifissoni che teneva nel suo studio. Professore (come quasi tutti i Prodi), presidente dell’Azione Cattolica di Bologna ecc. ecc.  Quattro figli (pochi per la media prodiana): Marco, Luca, Matteo e Giovanni. I quattro evangelisti, come te sbagli. Ma tra questi quello che in molti considerano (o che si considera lui stesso) erede del prodismo è un prete. Matteo, “Don Matteo”, brizzolato, che non risolve misteri ma anzi talvolta ne genera. “Mi chiamo Prodi”, esordisce, intervistato nel 2017 da Repubblica Tv in occasione delle sue dimissioni dalla parrocchia di Ponte Ronca, frazione di Zola Predosa. Dimissioni e anzi fuga, misteriose appunto. Si parlò di dissidi col vescovo. “Non a tutti è piaciuta. O piace la mia vita. A nessuno però è lecito portare in piazza valutazioni negative su di me”, disse lui, aggiungendo: “La chiesa è fatta di peccatori”. 

 

Poi non se ne è più saputo nulla. Oggi è parroco al Sud, nel beneventano. Se vogliamo continuare col paragone kennediano, lui è il John John, l’erede in cerca di visibilità, ha il fisico e il carisma. Don Matteo è presenza talvolta ingombrante, in cerca di luce propria. In seminario lo ricordano fortissimo a basket. E dicono le malelingue che ha rosicato per non aver celebrato lui l’omelia per la zia Flavia (ubi maior, c’era il cardinale). Ha recuperato col funerale del padre, e un’omelia-performance che è finita su tutti i social. “Dicono che la chiesa sia castrante sulla morale sessuale. Io vi dico: fate figli. Fateli come volete, a me non interessa”, con frase melliflua, nei giorni del dibattito sulla surrogata. Poi, più prodianamente: “Perché se muore l’unico zio è un disastro, se ne muore uno di venti un po’ meno”. E poi: “volete sapere come farli, i figli? Se volete vi mando un tutorial su YouTube”. Lui su YouTube già posta le sue omelie, e su WhatsApp invia le sue riflessioni sui vangeli. “Molto mediatico” conferma il deputato Serse Soverini, “ma Prodi non è che abbia mai battezzato un erede. Quella stagione è finita. A differenza di Berlusconi non c’è un continuatore del nome”. O forse sì. Una sfida tra Pier Silvio Berlusconi e don Matteo Prodi, ganzi cinquantenni con due nomi così, sembrerebbe esagerata agli sceneggiatori, ma farebbe sognare i sondaggisti e forse pure gli elettori.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).