Così Meloni si converte alla Casa Bianca: "Il cambiamento climatico è una minaccia letale"

Valerio Valentini

Più Biden, meno Giambruno. Questione di fuso orario, forse: o forse è la consapevolezza che il sovranismo, per rendersi presentabile nel mondo che conta, deve rinnegare se stesso. Era già successo per la candidatura all'Expo, ora per mostrarsi in sintonia col presidente americano. L'analisi della nota congiunta. Ecco come la premier prova a diventare "green" e "inclusiva"

Dev’essere stato un problema di fuso orario: ché mentre a Cologno Monzese si stava ancora sul meridiano del sovranismo, a Washington il cambiamento climatico era già arrivato  a battere l’ora fatale. E così mentre Andrea Giambruno, premier monsieur della Nazione, inveiva contro i catastrofisti del meteo, Giorgia Meloni, nello Studio Ovale della Casa Bianca, conveniva con Joe Biden nel riconoscere il climate change come una “sfida globale” e anzi di più, “una minaccia esistenziale” da combattere insieme. Divergenze coniugali, si dirà. E vabbè. Ma ciò che rileva, qui, è più che altro constatare come non solo sui temi economici e geopolitici, ma perfino sulla retorica più spicciola, l’estremo rifugio del populismo sovranista, Meloni è costretta, per stare al gioco dei grandi del mondo, a rinnegare se stessa.

Del resto qualche indizio di questa conversione forzata s’era notato già il 20 giugno scorso, a Parigi, dove la premier era intervenuta per presentare  la candidatura di Roma per l’Expo 2030 (a proposito, se n’è parlato anche alla Casa Bianca: che però s’è limitata ad “accogliere” – stando alla nota congiunta diramata alla fine dell’incontro – la proposta italiana con toni del tutto analoghi, un pro forma, a quelli adottati nel giugno 2022 per “accogliere” la proposta di Riad). E insomma lì, davanti a osservatori e giudici e leader di mezzo mondo, Meloni aveva sciorinato una serie di “valori fondamentali” da fare invidia a un Nicola Fratoianni. E dunque “sostenibilità ambientale e inclusività”, ed ecologismo come se piovesse, e la celebrazione di una Roma come capitale del melting pot (“A Roma ognuno, da qualsiasi nazione, troverà il suo luogo ideale, come un eguale tra gli eguali”: altro che blocco navale). E poi, ad accompagnare il discorso di Meloni, ecco la brava Mia Ceran, padre tedesco e madre bosniaca, un inglese impeccabile, intervistare bambine che sognano una città piena di alberi e di mirabilie tecnologiche entro il 2050 (quando forse perfino il Pos sarà ammesso, dai pretoriani della Fiamma), ed ecco Samantha Cristoforetti spiegare che il bello di vedere il mondo da lassù è che si capisce che “non ci sono frontiere”, con buona pace dei respingimenti in mare, e poi ecco la ricercatrice eritrea che in Italia ha trovato accoglienza e benessere e che valorizza l’essenza tollerante del Belpaese, la sua capacità di creare relazioni stabili e durature coi paesi africani. E giù a celebrare “i diritti”. Il tutto, beninteso, corredato da video di classi multietniche, con allievi d’ogni provenienza e perfino ragazze col velo, che immaginano la Roma che verrà, ovviamente verde, ospitale, meticcia. Wokismo patriottico, insomma. O forse solo la consapevolezza che, per rendersi presentabile al mondo che conta, il sovranismo deve mostrarsi per il contrario di ciò che pretende d’essere.

Era evidente, visto che Meloni giocava a fare la draghiana già in campagna elettorale,  che così sarebbe stato sull’economia (“Una legge di Bilancio prudente”), sull’Europa (“La nostra cara amica Ursula”), sulla diplomazia in generale. E quindi Cingolani, e quindi Figliuolo, e quindi Panetta (ah, i bei tempi in cui la Bce era un covo di “aguzzini” al soldo dei tedeschi). Era meno scontato che anche sul terreno dei valori, alla lunga, Meloni avrebbe dovuto cedere, almeno quando varca i confini nazionali. E non è un caso che la stampa americana abbia sollevato il tema dei diritti della comunità Lgbt alla vigilia dell’arrivo della premier a Washington: che insomma anche su quei dossier, sia pure in maniera non decisiva, si misura lo standing di un leader occidentale, la sua affidabilità.

Per cui ecco Meloni, giovedì, vergare, insieme a Biden, una dichiarazione congiunta in cui entrambi i leader “affermano la minaccia esistenziale posta dal cambiamento climatico e il loro impegno ad adottare misure decisive in questo decennio per limitare l’aumento medio della temperatura entro 1,5 gradi” (il tutto mentre Giambruno, negli studi di Rete 4, sbuffava contro i menagramo che si lamentano perché è luglio e fa caldo, embè?). Di più. Gli Usa, si legge nel joint statement, “aspettano con ansia l’inizio della leadership italiana del G7”, nel 2024, “laddove il G7 aumenterà i suoi sforzi per accelerare la transizione verde e affronterà le più pressanti sfide globali, inclusa la crisi climatica”.

Per cui ora toccherà avvertire gli alfieri meloniani, tipo il capogruppo al Senato di FdI, Lucio Malan, quelli insomma che  “chi parla di cambiamento climatico è un gretino”: il fuso orario è cambiato, Meloni ora è allineata col meridiano di Biden, è ecologica e pure inclusiva, almeno fino a quando le residue speranze di vedersi assegnato l’Expo sopravviveranno. Presto, Giambruno: rivedere la scaletta!
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.