Il caso

La Russa e Santanchè: i sassolini nella scarpa di Meloni. Il primo è censurato, la seconda verso l'uscita

Simone Canettieri

La premier critica il presidente del Senato e non difende la ministra: destinata a uscire dal governo. E domani c'è l'incontro con Mattarella

A Giorgia Meloni fa “malissimo” un piede per via di una scarpa scomoda. Lo dice due volte. Forse per via di quei due macigni che alla fine si toglie, ma non del tutto: Ignazio La Russa e Daniela Santanchè.  A Vilnius la conferenza stampa della premier, al termine del vertice Nato, è un apologo sulla scalata della leader di Fratelli d’Italia. Sì, ce l’avrai pure fatta ex underdog, ti inviterà pure Joe Biden alla Casa bianca, ma  alla fine ti ritroverai spesso a parlare di “madame Twiga” e ‘Gnazio: a entrambi, a suo tempo, non  riuscisti a dire di no. Tutto avviene in quarantaquattro minuti. Il contorno è il mondo, la ciccia è il rapporto fra il governo e la giustizia italiana dopo i tre casi che stanno investendo la Fiamma magica. Sul presidente del Senato, Meloni usa parole definitive. Anche se  comprende “molto bene da madre la sua sofferenza,  non sarei intervenuta nel merito della vicenda. Io tendo a solidarizzare per natura con una ragazza che ritiene di denunciare e non mi pongo il problema dei tempi”. Dopo la “sgrammaticatura” sulla banda musicale di semi pensionati in via Rasella, è la seconda volta che la premier censura le parole di La Russa. Ora c’è di mezzo Leonardo Apache e un presunto stupro. Poi ecco Santanchè.  


Sulla ministra che ondeggia sempre di più per la sua condotta da imprenditrice, la capa del governo pronuncia una frase che sembra far percepire l’inizio della fine per la titolare del Turismo: “Il merito si valuterà quando si conoscerà nella sua complessità”. Forse davanti a un rinvio a giudizio, in Transatlantico scommettono prima. La percezione: non è proprio una blindatura della Pitonessa, anzi. Poi però Meloni si attacca al metodo più che al merito della questione. E quindi attacca il quotidiano Domani, reo di aver dato la notizia dell’indagine a carico di Santanchè nel giorno in cui andava a riferire in Senato, e aggiunge che “un avviso di garanzia non determina in automatico le dimissioni di un ministro, a maggior ragione con queste modalità”. Seguirà un attacco all’editore del quotidiano Carlo De Benedetti. La scarpa a Meloni fa male perché c’è anche un altro sassolino, che piccolo non è: il rapporto con la magistratura. E qui c’è la rabbia e l’orgoglio, specialità della casa. Dunque da una parte dice di non comprendere le proteste dell’Anm (“non c’è alcun conflitto da parte mia: chi confida nel ritorno dello scontro tra politica e magistratura visto in altre epoche temo che rimarrà deluso”) e dall’altra si riconosce nella nota “fonti di Palazzo Chigi” che ha acceso la miccia. La nota accusava una parte della magistratura di voler fare politica in vista delle Europee. E così la premier bascula dalla linea distensiva del “voglio fare la riforma delle carriere con i magistrati e non contro” alle stoccate al tribunale di Roma per l’imputazione coattiva decisa dal gip nei confronti di Andrea Delmastro per aver rivelato notizie secretate a Giovanni Donzelli sull’anarchico Alfredo Cospito. Dei tre casi questo è quello che non le va giù. Al punto di bollarlo come “una scelta politica” la decisione del gip, così rara, ma giuridicamente legittima, “da non avere molti altri precedenti”. Ed è tutta un sali e scendi la conferenza stampa di Vilnius, attesa ed evocata. Più che per parlare di Ucraina per sapere che fine farà “la Santa” e che ne pensa dell’ultima uscita di La Russa. Sulla prima c’è un discreto venticello di malumore, sul secondo gelo totale: la linea è netta. Ha sbagliato a intervenire sul caso di Leonardo Apache. Come corre a ricordare subito anche la Lega con Andrea Crippa, vice di Matteo Salvini: “Sarebbe stato opportuno il suo silenzio”. E anche questo del Carroccio è un messaggio nei confronti della premier stretta fra la politica estera e i panni sporchi del suo giardino, quello che da Via della Scrofa si è allargato alle istituzioni. Ma sulla giustizia come macro tema non sembra mollare: vuole riformarla, senza strappi, ma vuole andare avanti “perché fa parte del programma”.  E così non si nasconde davanti alla nota violenta di Palazzo Chigi contro le toghe, ma dall’altra parte non getta ulteriore benzina sul fuoco, o almeno dice di non volerlo fare. Su e giù. Con spazio anche per il Pnrr e la strigliata “agli allarmisti italiani”, e cioè le opposizioni, mentre lei si professa “ottimista”. Le parole di Meloni rimbalzano al Quirinale che vede il bicchiere mezzo pieno. Si colgono più i segnali distensivi rispetto a quelli belligeranti nei confronti della magistratura. Ieri Sergio Mattarella ha incontrato Margherita Cassano, prima presidente della Corte di cassazione e Luigi Salvato, procuratore generale della Corte di cassazione. Un segnale di vicinanza e solidarietà dopo questi giorni. Il preludio al Consiglio supremo di difesa previsto per oggi pomeriggio al Colle. Ci sarà Meloni. Indosserà scarpe comode.
   

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.