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l'editoriale del direttore

Dividersi solo sulle bandierine è l'indizio di un'Italia matura

Claudio Cerasa

Dalle nomine Rai ai rave ai cibi sintetici, la maggioranza dà peso, per il loro significato identitario, a questioni poco rilevanti e nasconde così i suoi cedimenti al mainstream. Cattiva notizia? No. Segno che su ciò che conta non ci si azzuffa più

La volontà da parte della maggioranza di governo di sventolare costantemente e in ogni occasione possibile bandierine identitarie non è, come sostiene qualcuno oggi, la spia di una pericolosa deriva del nostro paese, di una vergogna nazionale, di una tendenza inarrestabile a esercitare i pieni poteri. E’ qualcosa di molto diverso. E’ qualcosa che se ci si riflette un istante indica un’attitudine opposta incarnata da una maggioranza di governo che non riuscendo a toccare palla nelle partite che contano tenta in tutti i modi di mostrare i muscoli quando le partite contano meno. Da questo punto di vista, dunque, il governo delle bandierine è portato a dare così tanto peso a questioni di rilevanza non primaria – come per esempio un avvicendamento in Rai – per dimostrare in piccolo quello che a livello macro non riesce più a dimostrare. Essere sempre gli stessi. Essere sempre quelli di un tempo. Essere sempre i testimoni di una politica coerente con le promesse del passato. Le bandierine ideologiche, in fondo, servono a questo. Servono a spostare l’attenzione sulla superficie. 

 

Servono a distogliere l’attenzione dalla sostanza. E servono in definitiva a portare in secondo piano la trasformazione della destra italiana nel simbolo di quello che non avrebbe mai voluto essere: il mainstream. E’ difficile, oggi, per Salvini e Meloni, scaldare il proprio elettorato parlando di Europa, parlando di debito pubblico, parlando di euro, parlando di Pnrr, parlando di infrastrutture, parlando di mercati, parlando di Ucraina, parlando di trattati di libero scambio, parlando di indipendenza dalla Russia. E’ più semplice, invece provare a scaldare il proprio pubblico mostrando ogni tanto qualche bandierina fondamentale da evidenziare per ricordare che la destra al potere è lì anche per evitare che i cosacchi progressisti continuino a girare indisturbati per le città italiane. E dunque eccole le bandierine. Basta con la sinistra che ci vuole imporre Fabio Fazio, basta con la sinistra che ci vuole far mangiare grilli, basta con la sinistra che ci vuole ingozzare di carne sintetica, basta con la sinistra che vuole riempire l’Italia di rave, basta con la sinistra che vuole riempire di immigrati stupratori le città italiane, basta con la sinistra che vuole toglierci dalle mani i nostri contanti, basta con la sinistra che protegge gli imbrattatori di muri. Lo schema della destra è sempre lo stesso anche dalle posizioni di governo: creare nemici immaginari alimentando emergenze irreali per evitare di far cadere l’attenzione dei cittadini sui problemi reali che il governo non è in grado di affrontare attingendo come promesso in campagna elettorale al proprio arsenale retorico. Si cambia per non morire, al governo. Si cercano scalpi per non far morire di pizzichi i propri follower. Ci si divide dunque sui conduttori dei talk-show perché gli argomenti che trattano i talk-show non dividono più l’Italia, non scaldano gli animi, non producono a tavola le discussioni di un tempo. E’ segno di una destra costretta, a colpi di bandierine, a nascondere i suoi cambiamenti, le sue trasformazioni, i suoi cedimenti al mainstream. E in questo senso, se ci si riflette un istante, non è un azzardo dire che avere un paese diviso sulle bandierine, e non sui grandi temi, è il segno di un paese che non se la passa così male. Un paese che in fondo ha un governo stabile, un’Europa non più in discussione, una maggioranza non troppo litigiosa, un’opposizione che prova a riorganizzarsi, un capo dello stato non divisivo, un sistema istituzionale che funzionicchia, e che in attesa di essere migliorato già oggi produce stabilità, e poi, ancora, un posizionamento internazionale difficilmente criticabile e un’economia che da quando ha scelto di non assecondare l’agenda dei sindacati, sindacati che sostenevano che l’agenda Draghi avrebbe impoverito l’Italia (non è successo), che sostenevano che lo sblocco dei licenziamenti avrebbe distrutto il paese (non è successo), e che dare maggiore libertà agli imprenditori avrebbe precarizzato il paese (non è accaduto), ha prodotto buoni risultati. Martedì, lo avete visto, la Commissione europea ha aggiunto ulteriori buone notizie per l’Italia, per l’anno in corso, e le previsioni economiche di primavera della Commissione indicano per il nostro paese una crescita del pil dell’1,2 per cento, migliorativa rispetto agli ultimi dati contenuti nei documenti programmatici del governo che segnalavano un incremento dello 0,9 per cento (tra i “grandi” paesi dell’Unione l’Italia è quello che dovrebbe registrare la crescita più alta di tutti, più della Germania, che crescerà dello 0,2, e più della Francia, che crescerà dello 0,7). E nonostante le proteste della Cgil, l’Italia di oggi è quella che ha contemporaneamente, oltre che una delle crescite più alte dell’area Ocse sommando anche il 2022 e il 2023, un’occupazione che continua a rafforzarsi, una percentuale di contratti a tempo indeterminato che continua a migliorare, una diseguaglianza che continua a diminuire, una ricchezza che continua a crescere (l’indice Isee è così cresciuto che molte famiglie potrebbero uscire dalla fascia delle esenzioni fiscali). Ci si divide sui simboli, dunque, ci si divide su ciò che rappresenta Macron, su ciò che rappresenta Fazio, su ciò che rappresenta un rave, su ciò che rappresenta la carne sintetica, perché sui grandi temi la destra non riesce più a dividere il paese. Non vorremmo essere troppo ottimisti, ma avere un paese che si divide solo sulle bandierine, e che a cena riesce a incazzarsi solo sui simboli, è il riflesso non di un paese che dorme ma di un paese stabile, che sui fondamentali non discute e che promette di dividersi solo sulle cose che contano di meno.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.