Il ritratto

Ignazio La Russa, fascio e martello

Carmelo Caruso

Busti di Mussolini, molotov e chiavi inglesi. Da Ragalna a Milano, da Almirante a Meloni, fino alla presidenza del Senato. Il fantasma del 25 aprile. Il romanzo di Ignazio e della sua famiglia. Un secolo di destra

“Sbatti La Russa in prima pagina!”, non è solo l’ordine di un direttore. Quale altro presidente del Senato è mai entrato in un film? Il titolo è “Sbatti il mostro in prima pagina”, il regista è Marco Bellocchio, il protagonista è Gian Maria Volonté. L’anno, il 1972. Dopo ventisette secondi appare lui, Ignazio Benito Maria La Russa, allora segretario dell’Msi di Milano, il fumetto della destra italiana, il suo “uomo secolo”, il ceramista del Novecento: “Non getterò mai il busto di Mussolini, è un regalo di mio padre”. Si chiamava Antonino La Russa, ed era un fascista, nato nel 1913. Sono passati centodieci anni. Ma sono passati? Durante la Seconda guerra mondiale venne fatto prigioniero dagli inglesi a El Alamein. Fu internato nel Fascist criminal camp in Egitto. Quando tornò in Italia si rifiutò di collaborare con gli angloamericani, i liberatori. Sarebbe stato un tradimento. Non “tradì”. Era avvocato penalista di Ragalna, comune vicino a Paternò, in provincia di Catania. Pietre nere e cielo nero dell’Etna. Nero su nero. Nel 1942 ricopriva la carica di segretario del Pnf di Paternò, nel 1946 dell’Msi. Si spostò dalla Sicilia a Milano. Senatore dal 1972 al 1992. Tre figli maschi (Vincenzo, Ignazio, Romano), una femmina (Emilia). Questo era suo padre.


E’ da almeno quarant’anni che il figlio, Ignazio, lotta contro la festa del 25 aprile (“una festa come tante”) così come ha lottato, insieme al fratello Romano, a San Babila, contro “le canaglie rosse”. La Russa è un protagonista di quella ferramenta ideologica, un deposito di falci, martelli, coltelli, spranghe, e dunque un reparto di teste spaccate, ossa contuse, stampelle e tintura di iodio. A destra, si prediligeva la lama affilata, per incidere meglio la carne; a sinistra, la chiave inglese, per aprire meglio la scatola cranica. Erano anni in cui i giovedì, sui quotidiani, erano “neri” e il cielo era “rosso”, come le sacche di sangue trasfuso. Non era rosso Marx. La Russa si divideva tra le aule universitarie e le caserme. Veniva fermato, interrogato, insieme a Franco Servello, Tomaso Staiti di Cuddia. Era la destra milanese, un’emeroteca di bastonate, liquori e sigarette Marlboro. La nafta serviva per incendiare le auto, mentre la vernice per imbrattare le abitazioni. I rasoi erano utilissimi per sfregiare con facilità a piazzale Lagosta. Una notte, sotto casa La Russa, al centro di Milano, in via Capranica, la Fiat 500 blu di Ignazio prese fuoco. Tanti anni dopo, Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate rosse, confessò: “Sono stato io”. Lotta continua gli aveva dedicato perfino un libretto dal titolo “Picchiatelo”. E lo picchiarono, ma anche La Russa ne ha date. Droghe, mai: “Figuriamoci, io non digerisco neppure i peperoni”. Il suo ballo preferito era la “Mattonella”. Il piatto della vita è la pastasciutta con le melanzane. La canzone: “Compagno di scuola” di Venditti. In ogni peluzzo di barba di La Russa (la tagliò in diretta a “Porta a Porta”) c’è almeno un paragrafo della storia italiana. I La Russa sono i nostri Buddenbrook, i LaRussanbrook. Un secolo e tutte le sfumature di destra, dal Pnf all’Msi, poi la svolta di Fiuggi, An, Pdl, fino a FdI. E’ vero che Ignazio e Romano danno oggi scandalo, a parole, ma c’è stato un tempo in cui erano costretti a dare i loro “alibi” al questore Guido Viola che, a cavallo degli anni Settanta, gli domandava: “Ma voi, quella sera, dove eravate?”. Passavano le serate al Bar Biberon di viale Forlanini, altre volte al bar Susa, o al Sandrino, la notte alla discoteca Fitzgerald. Ciclostilavano manifesti, si arrampicavano sulle guglie del Duomo per installare le antenne della loro radio clandestina, Radio University.


Di tutta quella sbornia, di tutte quelle botte, di tutto quel Céline, non è rimasto che “un fascismo al termine della notte”. Romano fa il mezzo saluto (romano), mentre Ignazio, eletto seconda carica dello stato, fa lo storico della domenica, il Paolo Mieli da “Un giorno da pecora”. Non è forse preferibile questa senilità, rispetto a quella giovinezza avvelenata, scervellata, nient’altro che piombo caldo, lutti e pianti? Il La Russa che straparla è infatti il lumino al posto della fiamma della destra sociale (a Paternò si era inventato una squadra di calcio chiamata Fiamma) mentre le sue dichiarazioni sono il crisantemo sui libri dello studioso Renzo De Felice, che i missini leggevano per avere cittadinanza nel paese, per raccontare che il fascismo era sul serio “l’autobiografia della nazione”. E De Felice, quella cittadinanza, gliel’ha data, ma loro l’hanno confusa con il paroliberismo. La Russa è infatti l’accademico che ha scambiato il revisionismo storico per lo storicismo magico e ogni volta che parla sembra Roberto Bolaño, lo scrittore cileno che ha inventato l’infrastoria, la caponata finzione/realtà. Per La Russa-Bolaño, “a via Rasella, i partigiani uccisero una banda musicale” e “nella Costituzione non c’è nessun riferimento all’antifascismo”. Per anni, ogni 25 aprile, La Russa ha portato una corona di fiori sulle tombe dei caduti della Rsi. Quest’anno, da presidente del Senato, si sdoppierà. La mattina insieme a Sergio Mattarella, all’Altare della Patria, il pomeriggio sarà in volo verso Praga per commemorare Jan Palach, l’eroe che si oppose alla dittatura comunista.  


Trasvolava pure da ex ministro della Difesa, governo Berlusconi, ma sui cieli mediorientali. Casco di pelle e stivaloni di gomma. Lanciava manifesti di liberazione: granate, sciarpe dell’Inter (la vera carica che ha sempre sognato è quella di allenatore) e cantava “Giovinezza”. Nel 2011, insieme all’Amministrazione americana, desiderava bombardare la Libia con i nostri Tornado. Berlusconi, che invano gli ha sempre chiesto di tagliare il pizzetto, gli consigliò di bere un chinotto: “Ignazio, non mi sembra il caso”. La Russa, lo hanno chiamato chi Belfalgor, chi Mefisto (il nemico di Tex) e chi La Rissa. Per i missini, i post, i figli dei postmissini, è invece solo “lo zio”, lo zio cresciuto di Giorgio Gaber: “Caro, vecchio zio fascista / è vero che avete fatto un bel casino”. Anche lui ha marciato su Roma, ma in un altro tempo, e sulla sua Alfa Romeo 164. Il secolo La Russa è stato raccontato da generazioni di giornalisti e oggi lo raccontano i nipoti di quelle generazioni. Ciascuno ha un pezzo di La Russa, una parte speciale. Viene ancora scambiato come si scambia un vinile dei Sex Pistols. Parlando agli universitari, ed erano i primi anni del Duemila, lui stesso teorizzò l’esproprio musicale al posto dell’esproprio proletario: “Scaricate musica illegalmente. Anche noi rubavamo i 45 giri”. Se ne pentì, chiese scusa. La Russa sbanda e poi chiede scusa. Ma la c, sulla sua bocca, diventa g e quindi è la doppiezza della sgusa. E’ stato un fan di Max Pezzali, degli 883, a cui avrebbe voluto fare scrivere l’inno di Alleanza nazionale. Tempo dopo, Pezzali rivelò: “Nulla di vero. Lo incontrai solo in un matrimonio”. La Russa è l’uomo ragno? La Russa è la profondità del pozzo. Tutta la sua storia da penalista ruota intorno al processo Ramelli. Difese la famiglia. Si tratta dell’uccisione a colpi di chiave inglese, nel 1975, di Sergio Ramelli, militante del Fuan (la formazione giovanile dell’Msi) massacrato da Avanguardia operaia (il gruppo di sinistra extraparlamentare).
E però, c’è davvero un altro La Russa, “legale”, amico, come il padre, del costruttore Salvatore Ligresti, l’imprenditore che cementificò Milano a colpi di grappa e “ni semu ‘ntisi”. Ligresti conosce Berlusconi, ma Ligresti conosceva anche il banchiere Enrico Cuccia che a sua volta, in Sicilia, conosceva Gerlando Miccichè, vicedirettore del Banco di Sicilia. A volte un “le presento” vale più di cinque bonifici. Si tengono: Ligresti, Cuccia, Berlusconi, La Russa, anzi, l’avvocato La Russa. Esistono faldoni su faldoni del dottor La Russa, difensore del calciatore Fabio Capello, di agenzie di viaggi che appiedavano turisti il giorno di capodanno. Ma La Russa ha anche preso le parti dei commercianti di viale Padova, che combattevano contro il senso unico o, ancora, quelle di un caposala, accusato di ricevere mazzette. Nel 1985 è grazie a queste sue battaglie che conquista oltre cinquemila preferenze al comune di Milano. Spende oltre quaranta milioni di lire di manifesti. Un’enormità per l’epoca. Alessandro Sallusti, punta della cronaca milanese del Corriere della Sera, veniva mandato in giro per raccontare gli slogan dei candidati consiglieri. Quello di La Russa era: “Ogni voto, una picconata”. C’è sempre del metallo quando si scrive di La Russa. Dal comune passa in regione. Il suo compagno di strada è il missino Riccardo De Corato, oggi in Parlamento. Si vogliono bene come due che ne hanno viste tante e insieme sono sopravvissuti.
Suo fratello, l’altro fratello, oltre Romano, era Vincenzo, “figlio unico”, come nel film di Daniele Luchetti. Nel 1975, un giornalista, scherzando, ma neppure tanto, notava: “Non si può neppure definire la ‘pecora nera’ della famiglia La Russa perché lui, Vincenzo, è la pecora bianca”. Al contrario di tutta la famiglia, orbace, Vincenzo, aveva scelto di aderire alla Dc. Consigliere provinciale, deputato e senatore per lo Scudo crociato. Era diverso. Ha scritto biografie su Scelba, Fanfani e Almirante. Era allievo di Franco Verga, il democristiano che fondò il Coi, Centro orientamento immigrati. Sull’immigrazione c’è sicuramente un tanticchia di Vincenzo anche in Ignazio che non ha mai pensato di prendere le impronte digitali agli immigrati. Quando deve parlare di immigrazione lo fa alternando lo stile La Russa. A Milano, alla presentazione del libro di Pier Ferdinando Casini, ha dichiarato: “Se la cicogna che mi ha scaricato, a Paternò, non avesse avuto freni efficaci, ancora un poco e sarei nato in Tunisia. E sarei stato un tunisino orgoglioso”. A La Russa, anche per merito di Fiorello e della sua imitazione, è stato perdonato molto perché La Russa permette ai giornalisti l’evasione, la scrittura, la caricatura, l’alternativa nomade che è dello scrittore Bruce Chatwin. La Russa è un lettore onnivoro, pure di Chatwin. Un giorno, i deputati del Pd lo presero in giro perché fece confusione con Philip Roth. Lui: “Io leggo tutto, la sinistra solo i necrologi”. Legge anche la Gazzetta dello Sport, ma quando presiede l’Aula. La sinistra non si sa divertire, mentre La Russa vive i suoi anni, sono 75, come quelli di Vasco. Spericolati. E’ amico di Daniela Santanchè, ma ci litigò quando, senza rifletterci, lei passò con la Destra di Francesco Storace senza avvisarlo (“sono servite le palle di cemento, altro che le palle di velluto, per fare entrare Daniela in An”).


Ignazio era in realtà il figlioccio di Pinuccio Tatarella, il vero busto della destra, l’ideologo dell’Msi, ma Ignazio era anche la consolazione di Tatarella che quando era malinconico chiedeva: “Canta, Ignazio, canta”. Il 14 agosto del 1987, Tatarella, da Bari, chiama La Russa, che si trovava a Taormina, e gli dice: “Dobbiamo fare vincere Fini al congresso di Sorrento. Ci serve Maurizio (Gasparri). Dove si trova?”. Era a Vulcano con la famiglia. Si telefonavano con i gettoni. In auto, Tatarella raggiunge Catania. Da Catania, La Russa e Tatarella si spostano a Milazzo e poi, in aliscafo, a Molo Vulcano da Gasparri. Mogli, secchiello e bermuda. C’è la foto. Ricorda Gasparri: “Fu la nostra vacanza, sospesa per ragioni politiche. Dovevamo avviare la macchina. Fini, come spesso capitava, era altrove”. Gasparri, amico di La Russa, è oggi in Forza Italia perché “qualcuno fedele al Cav. doveva pure restare”. Negli anni ruggenti del berlusconismo erano una cosa sola, si abbracciavano e brindavano a Palazzo Venezia. La Russa, a Palazzo Venezia, grazie al lasciapassare della Sovrintendenza, ci festeggiò pure il compleanno. I giornali festeggiarono per un mese perché La Russa è “un filone”.

 

I giornalisti li ha sempre adorati, e maltrattati. Concita De Gregorio, con La Russa, è diventata “Concitina”. A Corrado Formigli pestò i piedi (c’è il video). Si è rotolato nel fango in tutti i sensi (andò ospite da Paolo Bonolis a “Ciao Darwin”, il programma giungla della televisione italiana) ma si è preso anche le torte in faccia del Bagaglino. Grazie a queste sue scorrerie televisive, alla sua straordinaria resistenza, abbiamo dimenticato gli anni duri di La Russa e non sono solo i Settanta. Erano gli anni dove i nemici interni, Pino Rauti, veniva “affrontato” così: “Stava morendo e invece era solo in coma”. Se c’è un partito che La Russa ha sempre detestato, quel partito è la Lega. Umberto Bossi definiva i fascisti dei “paraplegici”. Lui, La Russa, li canzonava: “Ma baaarlate in italiano”. Piuttosto che votare loro, a Milano, consigliava ai missini di votare Nando Dalla Chiesa. Alla Rotonda della Besana, sempre in città, dove La Russa organizzava le feste della patria (sponsor Fininvest) a ogni edizione elencava gli incarichi di sottopotere accumulati dagli uomini di Bossi. Ha sfidato pure i cardinali Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi perché, ovviamente, erano troppo di sinistra e le loro omelie “consociative”. L’attuale sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, il più ascoltato da Meloni, colui che attacca Bankitalia, non si è inventato nulla. Il primo a contestare Bankitalia è stato La Russa. Sono cambiati solo i protagonisti. La Russa aveva di fronte Ciampi, mentre Fazzolari ha Ignazio Visco. C’è tutta una parte di La Russa (amico di Luciano Violante ed estimatore di Anna Finocchiaro: “Tutte le parlamentari dovrebbero studiarla come metro di stile”) che ormai è stata rimossa. E’ il La Russa che chiedeva a Berlusconi di fare entrare Antonio Di Pietro al governo e che offriva il ministero della Giustizia a Piercamillo Davigo. Con Davigo si scambiava addirittura testi e lo definiva “un campione”. Quel campione (di giustizialismo) alle lusinghe di La Russa replicava: “Caro Ignazio, non posso fare politica, io sono un guardialinee”.

 

Più volte si è creduto che La Russa dovesse fare il sindaco di Milano, ma gli mancava una qualità. Non era prodigo. La storica fioraia di Brera garantì che fra tutti i politici, presenti e passati, lui fosse “il più tirchio”. E non significa non essere romantico (ma a Rosy Bindi disse delle frasi irriferibili, salvo chiederle scusa. A uno studente ha dato del “culattone”). La Russa ha avuto due mogli, tre figli (Geronimo, Leonardo Apache e Lorenzo Cochis, rapper che cantava “Sono tutto fatto”). La prima esperienza sessuale - e l’ha descritta a Claudio Sabelli Fioretti nel 2002, per il settimanale Amica - l’ha avuta in collegio, in Svizzera, a San Gallo: “A 17 anni. Feci finta di saperla lunga in fatto di sesso. Ero assolutamente imbranato. E anche un po’ impaurito. Ma lei era più imbranata di me. Fu una cosa dolcissima”. Da ministro della Difesa disse che “non c’è incompatibilità tra la divisa e gli omosessuali”. Si inventò 74 pagine di manuale di fitness per i militari che dovevano buttare via la pancetta. Voleva, anche lui, dare lezioni di tiro nelle scuole (la storia si ripete) ma ricevette un brutto tiro, nel 2010, da quello che era allora uno stagista. E’ Nicola Imberti, giornalista del Tempo, poi del Foglio e ora di Domani, autore dello scoop meno cercato, come sono tutti quelli sinceri (una chiamata di un amico, imbucarsi, ma per caso). Origliò, alla Caffetteria di Piazza di Pietra, La Russa dire a Matteoli che a  Fini “tremano le mani. E’ malato”. La Russa e Matteoli, furono sollevati dalle loro cariche. La Russa si difese da avvocato: “Fini ha agito per legittima difesa putativa. E’ come se io ti punto una pistola giocattolo e tu spari con una Smith & Wesson”. Si separarono, anni dopo,  e si insolentirono. Ma sarebbe troppo.


Non basterebbero le pagine di Mann per raccontare i La Russanbrook e Ignazio, le sue simpatie, a sinistra, quelle che gli hanno permesso di essere eletto presidente del Senato, anche senza i voti di Forza Italia. Si può forse omettere il suo rapporto con Meloni (“ci ho puntato da subito”) e poi il “dolore feroce” per la fine di An, l’addio di Fini dal Pdl che tentò, inutilmente, di evitare? C’è chi ha sempre sorriso del suo ghigno, chi lo ha processato presso il tribunale dell’Anpi. E invece, sotto quel ghigno, c’è la complessità degli anni Settanta, il fumo industriale di Milano, i fez conservati nelle credenze di una lontana casa di campagna siciliana, c’è la durezza di una comunità che, come confidava il missino Benito Paolone, “ha smesso di essere una comunità di piglianculi e che si è scoperta mettinculi”. Il lungo romanzo dei La Russa è come la barba di Ignazio, spine e frutto. Un rovo di ficodindia.

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  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio