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scambi politici

"Responsabilità", "No, poco coraggio". Sul Def Meloni e Pd si scambiano i ruoli

Luciano Capone

Il governo spende tutto il possibile, l'opposizione invita a spendere anche l'impossibile. "Prudenza" e "ambizione" sono uno vizio o una virtù a seconda delle parti in commedia: così la premier prende il posto di Draghi e il Pd di Schlein quello di FdI

Siamo sempre lì, il governo cerca di spendere tutto il possibile mentre l’opposizione invita a spendere anche di più. Il primo rivendica la “responsabilità” e la seconda denuncia la mancanza di “coraggio”. E quando si invertono i ruoli, si invertono le parti in commedia. Ma nel contesto economico attuale, fatto di incertezza sui prezzi dell’energia, frenata della crescita globale, riduzione degli acquisti di titoli da parte della Bce e rialzo dei tassi, per un paese con un elevato debito pubblico come l’Italia (che viaggia spedito verso i 100 miliardi di interessi passivi nel 2026), la cautela del Def è sicuramente una virtù. “La prudenza di questo documento è ambizione responsabile”, come ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

 

Per queste ragioni, la decisione di politica economica del governo di mantenere l’obiettivo di deficit al 4,5 per cento, senza fare ulteriori fughe in avanti, ha perfettamente senso. Il miglioramento delle previsioni di crescita all’1 per cento programmatico consente di ricavare un gruzzoletto da circa 3 miliardi di euro che il governo Meloni utilizzerà per tagliare ulteriormente (rispetto ai tre punti già ridotti in legge di Bilancio) i contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si tratta di un’altra scelta condivisibile, che cerca – nel limite delle risorse disponibili – di contenere gli effetti dell’inflazione sulle fasce più deboli della popolazione, quelle che appunto risentono di più l’impatto dell’aumento dei prezzi.

 

Sostegno della crescita economica (che passa dalle previsioni di +0,6 per cento della Nadef e del Dpb all’1 per cento), mantenimento dell’obiettivo di deficit prefissato in legge di Bilancio (4,5 per cento), intervento a favore dei redditi più bassi (3 miliardi), continua discesa seppure leggera del debito pubblico (dal 144 per cento del 2022 al 140 per cento del 2026): è un quadro che tutto sommato risponde alle preoccupazioni dell’Europa, tranquillizza i mercati che devono finanziare il debito pubblico e interviene a mitigare gli effetti del caro prezzi.

 

Naturalmente, non è il giudizio che avrebbe espresso Giorgia Meloni se si fosse trovata all’opposizione. Ai tempi dell’ultima legge di Bilancio del governo Draghi, l’allora leader dell’opposizione si scagliò contro una manovra in cui “non c’è visione, non c’è impatto, non c’è la scelta politica centrale di porre le basi per una crescita economica duratura”. Insomma, per fare una politica economica così sparagnina “non serviva il genio di Draghi”, diceva la Meloni. Eppure quella finanziaria prevedeva una riduzione delle tasse pari 8 miliardi: “Sembrano tanti, ma non lo sono – era il commento di Meloni –. Sono meno dell’1 per cento delle tasse che versano gli italiani”. Ora la premier si rende conto di quanta fatica si faccia a tagliare le tasse con 3 miliardi e deve adattarsi a fare per il 2024 una manovra con uno “spazio di bilancio” di circa 0,2 punti di pil, più o meno 4 miliardi, con cui ridurre la pressione fiscale e finanziare le cosiddette “politiche invariate”, oltre a finanziare tutte le altre spese in programma a partire dalle pensioni. La “responsabilità” costringe, insomma, a fare le nozze coi fichi secchi.

 

Dall’altro lato, l’opposizione, ovvero chi sino a pochi mesi fa era al governo, ribalta il registro: “E’ un documento debole e rinunciatario”, dice ad esempio Antonio Misiani, che è stato viceministro dell’Economia del governo Conte II e responsabile economico del Pd prima con Letta e ora con Schlein. “La prudenza frena le ambizioni di rilanciare l’economia”, dice la mente economica del Pd che si allinea nei fatti alla posizione della Cgil di Maurizio Landini secondo cui tre miliardi per tagliare i contributi sono pochi. Eppure, quando Misiani era viceministro al Mef del governo Conte II esaltava l’impatto del taglio del cuneo fiscale previsto dalla manovra che era pari proprio a 3 miliardi (per giunta rivolto ai redditi medi e non a quelli più bassi). Si trattava, in sostanza, dell’aumento del Bonus Renzi da 80 a 100 euro. Allora era “responsabilità” ora è “mancanza di coraggio”, e viceversa.

 

Misiani, a nome del Pd schleiniano, propone interventi più incisivi ma fornisce solo coperture generiche: la lotta all’evasione fiscale (che non è una copertura) e la “revisione della spesa”. Ma quando Meloni ha eliminato lo sconto sulle accise (quasi un miliardo al mese) e messo un freno al Superbonus, Misiani e il Pd si sono scagliati contro. Senza quegli interventi di cui beneficiavano i redditi alti non ci sarebbero ora neppure i (pochi) tre miliardi per ridurre le tasse ai redditi bassi. Sarebbe una svolta se l’opposizione stimolasse il governo a spendere meglio e di meno anziché a spendere di più, anche perché la “revisione della spesa” è un obiettivo dichiarato anche dal governo Meloni. Ed è l’unica strada per ridurre davvero le tasse.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali