Draghiana o sovranista? Perché Meloni in un mese si gioca tutto in Europa

Valerio Valentini

Mes, Pnrr e balneari. Ballano 20 miliardi, e il peso negoziale dell'Italia sulle trattative per il Patto di stabilità. Macron, l'amico ritrovato, già sbuffa. Il Quirinale si attende risposte chiare e risolute. E intanto le opposizioni si muovono compatte, una volta tanto: "Sul Recovery non si scherza"

Crudele? Chissà. A meno che non s’intenda quella particolare forma della crudeltà che consiste nel costringere chiunque a deporre ogni ambiguità, a dismettere qualsiasi dissimulazione. Perché in questo caso, allora, sì, aprile, per Giorgia Meloni, potrà davvero rivelarsi il più crudele dei sei mesi trascorsi a Palazzo Chigi. Nei prossimi trenta giorni, la premier dovrà dimostrare in che modo vorrà stare in Europa, e dovrà farlo su almeno tre delicati dossier. Se il Pnrr è il più complicato, perché è da quello che dipendono miliardi e prospettive future sulle regole di bilancio, gli altri due definiranno il contesto in cui il confronto con la Commissione, sul Recovery, si svolgerà. E non a caso su uno, i balneari, il Quirinale s’attende risposte risolute; sull’altro, il Mes, è il Parlamento a esigerle.

Non solo il Parlamento, a ben vedere, se è vero che al termine dell’ultimo Consiglio europeo lo stesso Emmanuel Macron, che nella commedia degli equivoci europea di Meloni è ora il suo amico ritrovato, sollecitato sulla lentezza dei progressi dell’unione bancaria e il Mes s’è lasciato andare a un sorriso malizioso: “Non è certo la Francia l’elemento che blocca, e spero che chi ha ancora esitazioni arrivi a prendere le decisioni che deve il più presto possibile”. Logica vorrebbe – ma la logica, coi sovranisti, si sa… – che tutto si risolvesse entro il 28 aprile,  in tempo per evitare a Giancarlo Giorgetti l’ennesimo imbarazzo in quell’Eurogruppo il cui presidente, Paschal Donohoe,  pochi giorni fa ha messo a verbale l’ennesima strigliata all’Italia.

Nell’attesa che il governo si decida, in ogni caso, tocca alle opposizioni provare a stanarlo. Ed è questo il senso della discussione che da oggi s’avvia alla Camera, intorno alla proposta di ratifica del Mes avanzata da Pd e Terzo polo. Non che ci sia da attendersi svolte clamorose, almeno a giudicare dalla rassegnazione con cui Enzo Amendola spiega che “la destra continuerà a tirarla in lungo”. Del resto è questa la strategia adottata da Giulio Tremonti, il presidente della commissione Esteri che, nel definire le regole d’ingaggio con la minoranza, ha lasciato intendere che dal  governo ha avuto il mandato di prendere tempo. Ancora. “Dopo tutto – s’è sentito rispondere, da un autorevole ministro meloniano, un collega di FI – se era così urgente, questo Mes, potevate ratificarlo voi quando eravate al governo con Draghi”. “Così voi occupavate l’Aula”, è stata la replica.

Dunque rimandare: questa è la tattica anche sulle concessioni balneari. Malgrado il presidente della Repubblica resti in attesa, e da oltre un mese, di “iniziative” da adottare “a breve”, come scritto nella lettera di promulgazione del Milleproroghe il 24 febbraio. Ma c’è di più. Perché entro il 20 aprile è attesa una sentenza della Corte di giustizia europea potenzialmente clamorosa. Perché che i giudici di Lussemburgo dichiarino decadute le proroghe fatte in contrasto alla direttiva Bolkestein, è certo; ma, stando a quanto trapela, potrebbero addirittura disconoscere il termine fissato dal Consiglio di stato al 31 dicembre 2023. Significherebbe il caos normativo. E da questo caos  il governo – che pure conosce questi rischi, se non altro perché a Palazzo Chigi se li sono fatti spiegare dai nostri esperti a Bruxelles – finirebbe con l’essere investito. E allora pure le parole potrebbero scappare di mano: di nuovo quella retorica sull’Europa brutta e cattiva, quei rigurgiti di nazionalismo trucista di cui già si avvertono i primi sbuffi, nella Lega?

Meloni sa che forse non potrà permetterseli. Anche perché dal clima politico tra governo e Commissione dipenderà anche l’esito della verifica in corso a Bruxelles sui target di dicembre del Pnrr. Ballano quasi 20 miliardi. E, insieme a quelli, la decisiva negoziazione sul RePowerEu, da concludersi entro aprile. Fallire, per l’Italia, sarebbe esiziale: significherebbe perdere peso negoziale anche sulle trattative in corso su flessibilità dei fondi europei e  Patto di stabilità. Ma potrebbe essere un guaio, per Meloni, anche a Roma.  Perché sul Pnrr le opposizioni vanno coordinandosi in modo finora inconsueto. Elly Schlein ha  diramato l’ordine ai suoi: “Serve un’interrogazione sui ritardi sul Pnrr, così da costringere il governo a parlare di cose serie”. Riccardo Magi s’è già unito all’iniziativa. Il M5s seguirà. Figurarsi Carlo Calenda, che già giorni fa, in Senato, scalpitava: “A Meloni abbiamo perfino scritto una norma per poter dirottare una parte dei fondi del Recovery difficili da spendere su Industria 4.0, ma ci hanno spiegato che non hanno bisogno di aiuto. Sarà, ma a me sembra che annaspano. Perché finora Meloni ha giocato a fare la draghiana. Vediamo se ora lo sarà davvero”. Sul Pnrr, in particolare, l’ex premier amava citare Beniamino Andreatta, ogni volta che qualche suo collaboratore avanzava lagnanze: “Le cose vanno fatte perché si devono fare”. Saprà farle, Meloni?

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.