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Meloni spera in Scholz per il Consiglio europeo. Ma tra Roma e Berlino i dossier contesi sono parecchi

Valerio Valentini

Ottenere flessibilità sui fondi europei: questa è l'ossessione della premier, che chiama il cancelliere tedesco. La buona sintonia sulla transizione e sul "Piano Mattei" non nasconde però le distanze su immigrazione e Patto di stabilità. Le insidie per l'Italia e per la leader di FdI

Siccome con Macron butta male, e constatato che, a dispetto delle velleità della propaganda, a fare blocco con l’asse di Visegrad sanno anche a Palazzo Chigi che si va poco lontano, non resta che ingraziarsi Olaf Scholz. Socialista, certo, dunque sospetto (“Guida un governo di sinistra”, tagliano corto a Via della Scrofa), e però anche pragmatico, il meno rigorista, forse, dei leader tedeschi possibili. “Dietro al Recovery plan, in fondo, c’è lui”, s’è sentita dire Giorgia Meloni da un suo stimato consigliere diplomatico. Dunque, rotta decisa: Berlino, mon amour. Se davvero, come pare, la priorità italiana alla vigilia di un Consiglio europeo che si preannuncia complicato è quella di ottenere concessioni sulla flessibilità dei fondi europei, allora bisogna garantirsi una mezza benedizione dalla Germania. Sapendo, però, che i dossier su cui Giorgia Meloni e il cancelliere tedesco sono in contrasto sono parecchi. E la telefonata di ieri tra i due si spiega anche così.

Immigrazione e fondi per lo sviluppo: di questo hanno parlato Meloni e Scholz. E i temi discussi sono la testimonianza  di come i rapporti tra Roma e Berlino siano  contraddittori. Ottenere flessibilità sull’attuazione del Pnrr, strappare una mezza promessa sulla possibilità di compensazioni tra il Recovery e i progetti per la Coesione, in vista del 30 aprile: ecco le priorità che tormentano il ministro Raffaele Fitto, che ieri è rimasto a Palazzo Chigi a scrivere insieme alla premier il discorso che lei dovrà pronunciare oggi alla Camera in preparazione al Consiglio europeo di giovedì e venerdì. Di certo c’è che un eventuale via libera a questi piani passa per il consenso di  Scholz: e che questa sia la speranza italiana lo si è capito già il mese scorso. La battaglia contro la liberalizzazione degli aiuti di stato sembrava dovere essere irrinunciabile, per Meloni. Prima che la premier cedesse con fermezza, proprio confidando in una analoga accondiscendenza tedesca sulla flessibilità per i fondi europei. Un compromesso da cui l’Italia guadagnerebbe non più di tre miliardi all’anno: che è quel che la Germania potrebbe spendere, in aiuti di stato, in una settimana. Ma tant’è.

Ed è un tanto, cioè un poco, che non è, neppure questo, scontato. Anche perché con la Germania c’è appunto  un rapporto di reciproco odi et amo. C’è una concreta sintonia sulle politiche di transizione industriale, come dimostrato nel veto congiunto sul motore elettrico. E anche sul fronte internazionale della politica energetica, Roma e Berlino condividono obiettivi e strategie. I tedeschi sono stati di gran lunga i più espliciti, e per certi versi gli unici, a promuovere il “Piano Mattei”. Se n’è accorta Meloni anche parlando coi vertici della partecipate in scadenza: il progetto di Snam per la produzione di idrogeno in Tunisia da poter poi distribuire al nord Europa, ad esempio, ha trovato entusiastico accoglimento proprio in Austria e Germania.

E d’altronde, che il dossier tunisino sia un’ossessione, per il governo italiano, lo si capisce dall’apprensione con alla Farnesina si batte ogni via diplomatica, non con grande fortuna per ora, per sbloccare il prestito da 1,9 miliardi del Fmi al governo di Kaïs Saïed. E lo dimostra, poi, l’attivismo di quel Matteo Piantedosi che ieri ha incontro la premier alla Camera e che oggi volerà in Costa d’Avorio, uno dei paesi da cui è maggiore l’afflusso di migranti che entrano in Tunisia col sogno europeo da affidare a un barcone.

E qui, però, si viene alle dolenti note. Sull’immigrazione Meloni otterrà poco o nulla. Quei vaghi impegni inseriti nelle conclusioni del Consiglio di febbraio, e branditi come un grande trionfo, si rivelano ora per quel che sono: poco o nulla. E qui c’entra anche lo scetticismo di Scholz sulla linea della brutalità italiana. Ieri, non a caso, la ministra degli Esteri Annalena Baerbock ha mandato un dispaccio a Roma: serve riattivare una missione navale europea e un patto di ricollocamenti dei migranti non solo su base volontaria. Tornare, insomma, a prima delle follie della stagione gialloverde dei “porti chiusi”. E chi ha avuto modo di ascoltare i commenti che ieri sottovoce si davano a Palazzo Chigi alle parole della leader verde (“li accolga a casa sua”) ha capito quanto incolmabili siano, ancora, le distanze tra Roma e Berlino sul tema. 

Solo appena minori, ma comunque notevoli, sono pure quelle sul Patto di stabilità. Qui l’interlocutore è il liberale Christian Lindner, il ministro delle Finanze che ancora pochi giorni fa, parlando con Giancarlo Giorgetti, non ha lasciato molto spazio alla speranza di rottamare i canoni del 3 e del 60 per cento su deficit e debito. Senza contare, poi, che sul tema di riforme finanziarie la pur misuratissima benevolenza tedesca verso l’Italia guadagnata da Mario Draghi è tutt’altro che scontata. Se venerdì, come pare, a Bruxelles si discuterà di crisi bancaria, e si evocherà di nuovo la necessità di completare gli strumenti di sicurezza europea, sarà difficile che qualcuno, nella delegazione tedesca, non ricordi all’Italia i ritardi nella ratifica del Mes. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.