Decima Mes. Meloni cerca una via sovranista alla ratifica, con un occhio al Quirinale

Valerio Valentini

La premier non vuole accollarsi l'abiura, ma Salvini la lascia ad annaspare nelle sue contraddizioni. Giorgetti dà rassicurazioni a Bruxelles, ma prende tempo. Fitto è scettico, ma silente. E c'è chi, nel governo, teme un nuovo attrito col Colle

Che non si possa tirarla troppo in lungo, è chiaro. E’ ciò di cui è convinto Antonio Tajani, ad esempio, e come lui pure Giancarlo Giorgetti. C’è però, e tra questi Raffaele Fitto, chi ritiene che non sia neppure utile prolungare ancora questa estenuante pantomima. Insomma, che il Mes andrà ratificato lo sanno un po’ tutti, nel governo. Lo sanno e se lo ripetono in privato. Salvo poi, beninteso, fare ostensione di pubblico cipiglio sovranista. Giorgia Meloni, confrontandosi coi suoi confidenti, aveva lasciato intendere che non poteva in ogni caso essere quello di mercoledì, il teatro della resa. Il question time alla Camera, il rodeo d’Aula in diretta tv: figurarsi. L’abiura avverrà in sordina, possibilmente figlia di nessuno. E forse qui sta il nodo politico: il fatto che invece, secondo Matteo Salvini, la paternità del rinnegamento dovrà essere chiara: “Attendiamo Giorgia”.

Cortesia non richiesta, una volta tanto. Anzi, nella Lega sono convinti che i vertici di FdI gradirebbero di buon grado un po’ di conflittualità interna, sul Mes. Se, insomma, il segretario del Carroccio ha diramato a tutti l’ordine del silenzio sul Fondo salva stati, se la linea è laissez faire e stare a guardare, è perché sa che toccherà a lei, a Donna Giorgia, annaspare nelle sue contraddizioni. “Per due anni ci ha accusato di ogni tradimento, mentre noi sostenevamo Draghi e lei si godeva la pacchia dell’opposizione: ora sta a lei governare”, è il ritornello che circola da quelle parti. Dinamica analoga a quella che si registra in Forza Italia. Sia Licia Ronzulli sia Giorgio Mulè, insomma non due tra i più benevoli verso la Fiamma, nel dicembre scorso, con la legge di Bilancio messa a referto non senza tribolazioni, offrirono una sponda al ministro dell’Economia che chiedeva di non esasperare i toni: “Si può procedere alla ratifica, sia pur con le riserve del caso”. Era un assist alla premier. Che si guardò bene dal raccoglierlo.

E sì che negli incontri all’Eurogruppo, Giorgetti ha già garantito al presidente Paschal Donohoe che di intenzioni reali di porre un veto sulla ratifica della riforma non ce ne sono. Le sollecitazioni sempre più esplicite di Pierre Gramegna, il presidente lussemburghese del Mes che lo stesso ministro leghista ha contribuito a far eleggere, le accoglie stringendosi nelle spalle, come chi sa che deve attendere che maturino i tempi, ma che i tempi non dipendono dalla propria volontà. Anzi, pare che Giorgetti sia stato tra quanti abbiano sorriso quando a Palazzo Chigi si è parlato di una nuova risoluzione parlamentare che, pur se infiocchettata tra mille distinguo sovranisti, dia al governo una indicazione a fare quel che una precedente risoluzione della stessa maggioranza, a dicembre, ammoniva a non fare: ratificare, appunto.

Semmai, a illuminare l’inopportunità dell’indolenza, dell’immobilismo nell’attesa di Godot, c’è ora la crisi bancaria che dalla California passa per la Svizzera e di lì prolunga la sua ombra fosca sull’Eurozona, rendendo più insofferenti i ministri delle finanze dell’Unione rispetto ai balbettii italiani. E si spiega allora perché il più scettico su questa tattica inutilmente dilatoria, su questo residuo di antieuropeismo d’antan, sia proprio quel Fitto che si ritrova a gestire i rapporti con Bruxelles. Su una vicenda analoga, quella dei balneari, il ministro meloniano, dopo aver esercitato una lunga, vana moral suasion,  alla fine ha allargato le braccia di fronte ai colleghi di governo: ché insomma il compromesso per mandare a gara le concessioni evitando il collasso del sistema lui con la Commissione lo ha già individuato, per cui quando l’ammuina politica finisce si potrà procedere. Sul Mes, il discorso è analogo. Anzi per certi versi ancora più surreale: perché la semplice ratifica del  trattato non avrebbe alcun impatto concreto. C’è solo da assumersi la responsabilità politica di dire: c’eravamo sbagliati.

Che è proprio ciò, tuttavia, che Meloni non vuole accollarsi. Lei che più di tutti ha tuonato contro “la tagliola” del Fondo salva stati, contro “questo strumento pensato per salvare le banche tedesche coi soldi italiani”, e via dicendo. Perfino sull’eventuale riforma del trattato, sulla sua trasformazione in un fondo industriale europeo, non può certo pretendere che siano altri a impegnarsi. Anzi, forse è proprio quella la sfida che la attende: un ripensamento del Mes “in ottica espansiva”, come dicono a Palazzo Chigi, dovrebbe essere proposto da Meloni stessa ai leader europei. Ai 19 capi di stato e di governo che hanno ratificato il nuovo Mes, dovrebbe essere lei, da sola, a mostrarsi convincente nel disegnare una nuova struttura e una nuova funzione del Fondo salva stati. Magari a partire, chissà, proprio dal Consiglio europeo della settimana prossima? Arduo, certo. Forse, appunto, limitarsi a ratificarlo sarebbe più facile. Anche per evitare lo scenario prospettato mercoledì alla Camera da un pragmatico ministro azzurro: che, cioè, dopo la strigliata sui balneari, arrivi dal Quirinale anche un richiamo sul Mes. Non sembra così improbabile, in effetti. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.