i flussi migratori

Meloni in affanno sulla Tunisia fa pressing sul Fmi. Ansie per gli sbarchi e controsensi sovranisti

Valerio Valentini

Chiede per Tunisi gli stessi prestiti che voleva per l'Italia al posto del Recovery. L'attivismo diplomatico della premier per puntellare il governo Saied: da lì dipendono le sorti della crisi dei migranti

Vorrebbe parlarne a Joe Biden. Nell’attesa, solleva il tema col presidente degli Emirati Arabi Uniti e con quello israeliano, ne discute con l’emiro del Qatar. E poi le sollecitazioni alle nostre ambasciate, a Washington e non solo, e  i dispacci ai funzionari italiani presso il Fondo monetario internazionale. Quei 2 miliardi scarsi da prestare alla Tunisia stanno diventando un’ossessione, per Giorgia Meloni. Perché sa che è da lì che, se si potrà, si dovrà fermare l’esodo africano verso le coste siciliane. E forse perché, dopo aver rivendicato con patriottica baldanza dei presunti successi sull’immigrazione all’ultimo Consiglio europeo, la premier si accinge al prossimo, quello del 24 marzo, con l’inquietudine di chi sa che non ci sarà alcuna svolta, anzi.

Era il 10 febbraio quando Meloni sventolava come novità epocali alcuni commi inseriti nelle conclusioni del Consiglio che erano in effetti delle vaghe rimasticature di obiettivi già fissati anni fa. Ora, a pochi giorni dal nuovo vertice dei leader a Bruxelles, gli sherpa che preparano il dossier hanno fatto sapere che, alla voce “risultati possibili” c’è, grosso modo, questo: nulla. Il panico che ne consegue, a Palazzo Chigi, è  comprensibile. Perché gli sbarchi non si fermano, anzi proseguono a ritmi mai visti da quasi un decennio in qua. E, a fronte di questo allarme, perfino quell’altro supposto “significativo passo avanti ottenuto grazie alla posizione del governo italiano”, e cioè il riconoscimento della rotta del Mediterraneo centrale come una priorità europea, si rivela per quello che è. Poca roba. “Non era mai accaduto”, esultava la premier già a dicembre. Quel che rimane, di quell’ebbrezza, chissà.

Ma fosse solo un problema di propaganda, vabbè. Il punto è che la crisi tunisina spaventa davvero, il governo italiano. Diecimila arrivi a febbraio significa, nelle proiezioni elaborate dal Viminale, sessantamila sbarchi ad agosto. Un flusso ingestibile per chiunque. E che  potrebbe perfino assumere dimensioni peggiori se davvero, come si teme  alla Farnesina, la crisi di Tunisi degenerasse sotto il peso dell’inflazione alimentare. La guerra in Ucraina, per un paese che importava più dell’80 per cento del grano da Kyiv e Mosca, era un dramma annunciato. Ora inizia a prendere sostanza. 

Per questo Meloni ritiene fondamentale accelerare il prestito di 1,9 miliardi di dollari negoziati dal governo Saied col Fmi a ottobre. L’accordo sembrava fatto, sennonché a Washington hanno poi frenato. Troppo scarse le garanzie politiche offerte da Tunisi per un programma di riforme molto stringente, da attuare in 48 mesi, che prevede la ridefinizione del quadro fiscale e sanitario, oltreché privatizzazione di enti parastatali, tagli a sussidi alle famiglie, norme contro la corruzione. In una parola: austerity. In un paese, la Tunisia, in cui l’opposizione dei sindacati, la forza d’urto della piazza, metterebbero in crisi la tenuta del governo per molto meno. 

“Ma se aspettiamo ancora per convincere il governo a varare le riforme,  tra un po’ non ci sarà più alcun governo, a Tunisi”: questa è la tesi dei consiglieri di Meloni. E questo, grosso modo, è il senso della  moral suasion che la premier sta svolgendo senza sosta (“Passo le giornate al telefono”). Perfino nella sua trasferta ad Abu Dhabi ne ha parlato con lo sceicco Mohamed bin Zayed. E non a caso. Perché proprio l’intervento degli emirati, insieme a quello dei qatarini e dei sauditi,  ha consentito all’Egitto di poter offrire al Fmi garanzie necessarie per vedersi concedere un prestito di 3 miliardi, a fine 2022. Operazione al momento improbabile, in Tunisia. 

E Meloni non ha soluzioni alternative in caso di emergenza. Il suo “Piano Mattei”, posto pure che esisterà mai, è un progetto di lungo respiro, di prospettive velleitarie. Tunisi di soldi ne chiede pochi, maledetti e subito. Ma  spazio politico per negoziare, a Bruxelles, non sembra esserci. Senza un intervento della Casa Bianca – assai poco interessata alle vicende africane – difficilmente il Fmi si convincerà ad accelerare l’erogazione dei fondi.

E sì che c’era un periodo in cui Meloni confidava molto, nel Fondo. Nell’estate del 2021, la capa di FdI spiegava che per l’Italia, anziché accedere al Recovery Fund, sarebbe stato assai meglio rivolgersi al Fmi per chiedere i Diritti speciali di prelievo (Dsp), così da aggirare “il ricatto delle condizionalità” e “senza essere alla mercé dell’asse franco-tedesco”. Ecco, i Dsp sono proprio lo strumento con cui il Fmi ora vorrebbe finanziare la Tunisia, chiedendo in cambio quelle che Meloni definirebbe “manovre lacrime e sangue”. Potevamo ambire a ergerci a Tunisia d’Europa, sperando di essere trattati come un paese africano sull’orlo del collasso. Se ora cerchiamo di essere, noi, i salvatori della Tunisia, è perché nessuno pensò all’epoca di seguire i consigli di Meloni.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.