"Non sono come mi disegnano". Su guerra, segreteria e grillismo Schlein prova a disorientare i suoi avversari

Valerio Valentini

Accantona l'ipotesi di una mozione di sfiducia per Piantedosi: "Ora chiediamo conto a tutto il governo". Sul sostegno militare a Kyiv, mantiene la linea di Letta e invia emissaria a rassicurare l'ambasciata americana. Lancia la sfida a Conte e confonde Bonaccini. La neo segretaria del Pd prova a stupire

Ai suoi che le sottopongono di continuo rogne da smaltire, lei offre una battuta che è una rassicurazione: “Non sono come mi disegnano”. Ce l’ha con gli avversari, certo, dentro e fuori il partito. E forse un po’ Elly Schlein ce l’ha pure coi cronisti che la inseguono, e a cui dispensa con impensabile parsimonia, con una accortezza che sembra quasi diffidenza, quasi scortesia, umori e parole. Sta di fatto che la neo segretaria del Pd cerca di smentirli davvero, i suoi detrattori: di contraddire il racconto che su di lei s’è imbastito su tre punti fondamentali. Uno è la guerra in Ucraina, l’altro il rapporto col M5s, e poi c’è la trattativa con Stefano Bonaccini. E in questa ansia di confutare il cliché di cui si sente oggetto, Schlein decide allora di cambiare tattica anche su Piantedosi.

Succede così che all’alba del giorno in cui il ministro dell’Interno è atteso al rodeo parlamentare, la segretaria del Pd si convinca dell’opportunità di accantonare l’ipotesi  più azzardata: la mozione di sfiducia. “E meno male” , se la ride baldanzoso il redivivo Andrea Delmastro, “perché io sto ancora aspettando che calendarizzino quella contro di me”. Non che manchino, nel Pd, le tesi contrarie, e non solo nella cerchia di Schlein. “E’ talmente grave la faccenda, che secondo me dovremmo andare fino in fondo”, dice Matteo Orfini. Certo, c’è chi, come il bersaniano Federico Fornaro, vecchia guardia del centrosinistra, ricorda che la mozione di sfiducia è un’arma a doppio taglio, da usare con cautela. “Vero, li ricompattiamo, ma li schiacciamo tutti, Meloni compresa, sulle posizioni oggettivamente imbarazzanti di Piantedosi”, insiste Orfini.

Non ci sarà, la mozione. Anche perché, come dice  Stefano Vaccari, altro guardiano dell’ortodossia schleiniana, “se Piantedosi sta sulla graticola, mica saremo noi a toglierlo da lì”. E che siano vero oppure no, le voci di rimpasto a cui nel Pd si sforzano di credere, quelle per cui dietro l’incontro tra il sottosegretario Alfredo Mantovano e il magistrato Nicola Gratteri ci sia un preavviso di sfratto al capo del Viminale, poco importa. “Importa che noi pretendiamo, ora, che tutti i ministri coinvolti vengano a riferire”, spiega Schlein in Transatlantico. Si parte da Matteo Salvini, certo, ma si punta anche a Giancarlo Giorgetti, per arrivare poi più su, fino alla premier.

Dove porterà la strategia, chissà. Certo è invece che lo scenario che sembrava più probabile, che cioè Schlein prediligesse il massimalismo da social network alla tattica d’Aula, almeno per ora va rivisto. E l’atteggiamento sulla guerra è un altro indizio di questa dinamica. Se la segretaria ha voluto mandare ieri dei suoi emissari all’ambasciata americana, per rassicurare gli alleati dubbiosi sul mantenimento della linea lettiana, quella del fermo sostegno militare all’Ucraina, è perché ha cercato di troncare sul nascere possibili tentazioni di disimpegno “pacifista”, che pure circolano intorno a lei. “E poi lasciare a Meloni il monopolio dell’affidabilità internazionale sarebbe un errore”, s’è sentita raccomandare Schlein dai suoi consiglieri più nobili, come Romano Prodi.

Il che dimostra, però,  come la segretaria eletta anche grazie al riflusso grillino non paventi granché lo scontro col grillismo. E così, nel giorno in cui incassa perfino il mezzo endorsement dell’Elevato (“Schlein? Benissimo se le nostre idee vengono portate avanti da altri”), l’ex leader di OccupyPd riscontra come proprio sull’immigrazione ci sia  ampio spazio per sottrarre a Giuseppe Conte la palma di presunto punto fortissimo di riferimento dei progressisti. L’intervento assai tiepido di Vittoria Baldino dimostra che sì, “qualche scheletro nell’armadio nel M5s c’è ancora, quando si parla di ong”. “La verità è che il Pd ritiene questo tema come il suo cavallo di battaglia, e noi glielo lasciamo”, replica l’ancella del contismo. Ma tant’è. Perfino sulla battaglia contro la modifica del Rdc, che forse il fu avvocato del popolo riteneva suo campo di caccia esclusivo, Schlein lancia la sfida, e prepara un tour al sud per incontrare “le tante comunità” che dal taglio del sussidio  resterebbero afflitte.

Questo, però, dalla prossima settimana. Prima c’è da superare indenni l’assemblea inaugurale di domenica. “Non ci impicchiamo a nomi o formule, siamo pronti a discutere di ogni soluzione”, ripete Schlein agli emissari dell’ala sconfitta. E nel farlo, però, prende tempo, convinta forse che nell’attesa  le divergenze tra quanti hanno sostenuto “l’amico Stefano” s’ingrossano e si esasperano. Ieri Bonaccini ha fatto un giro di telefonate coi vari leader della sua mozione: un confronto da cui è uscita chiara la preferenza per rivendicare per sé il ruolo di presidente, e non quello di vicesegretario, e di avviare un confronto serrato con la nuova capa del Nazareno. Che nel frattempo, però, prova come può a togliere alibi ai suoi avversari: “Non sono come mi disegnate”. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.