Giorgia Meloni a Brussels (Lapresse)

Un'indagine

Il peccato di Meloni. L'inerzia europea del governo che penalizza l'Italia

Oscar Giannino

Il sostegno all’Ucraina in guerra e il rapporto con i grandi partner atlantici. La svolta anti-migranti del Viminale e l’assenza di risposte politiche sulle questioni economiche aperte sul tavolo dell’Ue. L’Italia è finita in un angolo sui grandi dossier non per complotti ma per demeriti propri

Maledette elezioni regionali in Italia. Il pessimismo è un modo rassegnato di guardare alla realtà. Ma tra l’ottimismo di circostanza e il realismo, anche se quando è al governo e non all’opposizione le viene difficile, la politica deve preferire sempre la seconda strada. Con l’attenzione preminente del governo alle regionali ieri in Lombardia, che ha scandito le iniziative identitarie del governo dai profughi nel Mediterraneo all’accelerazione sull’autonomia differenziata delle regioni, il Consiglio europeo di giovedì e venerdì scorso ha invece provato inequivocabilmente che nei suoi primi 100 giorni il governo Meloni non ha ingranato la strada giusta sui maggiori dossier aperti sul tavolo della Ue. Le affermazioni del presidente del Consiglio di grande soddisfazione alla fine dei lavori erano rilasciate a fini elettorali. Tutti hanno visto com’è andata per davvero.

 

Il dossier che è sembrato più a cuore del governo è quello della “difesa dei confini”, buon ultimo nel Comunicato finale del Consiglio europeo, cui è stato dedicato il primo intervento in plenaria del presidente del Consiglio Italiano. Cioè la svolta anti-migranti del prefetto Piantedosi e la richiesta imperiosa che finalmente ci si decida alla riallocazione forzosa in Europa per quote nazionali dei profughi sbarcati in Italia. Con tutto il rispetto per l’enfasi nazionalitaria che muove la destra italiana su questo tema a forte caratura elettorale e identitaria, decenni alle nostre spalle comprovano che questa richiesta o la costruisci preventivamente con un fittissimo dialogo riservato con altri paesi Ue in cambio di accordi economici a reciproco vantaggio, oppure resta un comizio per le campagne elettorali domestiche. Se il decreto Piantedosi voleva essere premessa per la richiesta di un codice europeo per le Ong impegnate a salvare i profughi, andava scritto in tutt’altro modo. Non certo vietando più di un salvataggio alla volta e affibbiando allo sbarco dei profughi porti a centinaia di miglia di mare di distanza. Così è facile per tutti, in Europa, replicare che se l’Italia vuole riallocazioni allora non può imporre violazioni dei diritti umani più elementari minacciando sanzioni ai salvatori di naufraghi. Il Consiglio ha stanziato risorse per le barriere di terra contro i migranti dei paesi est europei, il problema italiano invece resta.

 

L’impegno prioritario mancato è quello sui temi veri che il Consiglio Ue ha affrontato. E che erano in rapida ebollizione da mesi. Temi politici ed economici essenziali. Che risposte dare a Zelensky, in tour europeo in cerca di maggiori sostegni ora che si paventa una nuova offensiva russa. Come affrontare la sfida lanciata non solo sul Green Tech ma sull’intera filiera di industria 5.0 da Stati Uniti e Cina, coi loro enormi stanziamenti pluriennali di sussidi e incentivi all’investimento “domestico” che sommano trilioni di dollari. Come finanziare l’accelerazione alla neutralizzazione delle emissioni climalteranti avvenuta con il Fit for 55, che è nato successivamente alla definizione e all’avvio del Next generation Eu ma prima che si manifestassero gli effetti energetici dell’invasione russa in Ucraina. Che risposte e strumenti concreti dare alle prime proposte che la Commissione Ue ha avanzato con la sua comunicazione del primo febbraio scorso, “A Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age”. Se cioè imboccare la via dell’ulteriore estensione di deroghe agli aiuti nazionali di stato, o se scegliere invece o in maniera almeno concomitante la via del lancio di nuovi fondi europei comuni per affrontare la sfida con un’ottica di beni e interessi comuni dell’intera industria europea, non di quelle nazionali dei paesi membri. Questo elenco è solo fatto per capitoli principali. Ciascuno di essi comprende molte ipotesi di strumenti regolatori e molte questioni finanziarie collegate. 

 

Prima di esaminarli più in dettaglio, serve una premessa politica. Che consiste in una domanda. L’Italia è finita nell’angolo quasi su tutte queste questioni. Era possibile o irreale, evitarlo? È solo frutto del fatto che il governo ha avuto poco tempo dalla sua nascita? O ci sono stati errori di valutazione? Chi qui scrive non ama dover criticare il proprio governo quando opera sulla scena internazionale. Pensa però che raramente come in questa occasione, sulla scena europea ci fossero molte premesse per poter e dover fare molto meglio. Esempi concreti. Cominciamo dalla questione Ucraina. Sappiamo com’è andata, Zelensky stoppato a Sanremo, che come detto giustamente da Luca Josi è uno dei programmi tv europei più visti in Russia. Trionfalmente accolto a Londra, che non lesina aiuti militari. Poi a cena con Macron e Scholz. Ci doveva essere un bilaterale con Meloni a latere dei lavori del consiglio Ue. È finita con un incontro di gruppo, e un brevissimo scambio di parole in piedi a quattr’occhi. Un commento acido della premier italiana all’incontro con Macron e Scholz, e una risposta di Macron che in realtà era infondata. Francia e Germania – ha detto – hanno sempre svolto un ruolo particolare nella vicenda Ucraina. Peccato che il primo viaggio congiunto a Kyiv di Macron e Scholz insieme, il 16 e 17 giugno scorso, sia avvenuto con Draghi.

 

E fu Draghi, nel lungo viaggio in treno, a convincere Macron e Scholz a superare le forti obiezioni che essi nutrivano a dare immediata risposta positiva alla pressante richiesta ucraina di un sì immediato di principio alla per altro assai lunga procedura di ingresso nella Ue. Allora Macron era ancora del tutto preso dal suo personale tentativo di giocare una carta personale con Putin alla mediazione e alla trattativa, respinta da Putin ma coerente alla vecchia interpretazione gaullista di un’Europa dall’Atlantico agli Urali per impedire conflitti ai tempi della Guerra fredda. Mentre Scholz era fermo anch’egli ai tradizionali dubbi verso ogni iniziativa che potesse apparire provocatoria a Mosca, secondo i vecchi principi della Ospolitik socialdemocratica dei tempi di Willy Brandt, trent’anni prima della caduta del Muro. È stata l’Italia con Draghi, a far superare la tenace presa di quegli antichi riflessi condizionati franco-tedeschi. E l’attuale governo Meloni fin dal primo giorno del suo giuramento doveva continuare a lavorare esattamente in quella direzione, perché quel giorno di fatto era stato consegnato alla storia il vecchio asse franco-tedesco del Trattato  bilaterale dell’Eliseo, per decenni perno e motore dei sì e dei no sulla via dell’integrazione europea per tappe successive. Ed era stato archiviato proprio sul crinale  della frattura sconvolgente rappresentata dall’invasione russa, che ha rotto per sempre i 17 anni in cui – dalla prima volta in cui nel 2005 Putin iniziò prima ad annunciare la sua nuova strategia ostile alle liberaldemocrazie, per poi praticarla militarmente dall’Ossezia e Georgia alla Crimea al Donbas – Parigi, Berlino e Ue al traino hanno deciso di girare la testa dall’altra parte, e di continuare a infilare suicidariamente il collo nel cappio del gas russo. Se il governo Meloni non è riuscito a ricordare a Macron come sono andate le cose nel 2022, pur di non pronunciare mai il nome di Draghi, ha fatto un pessimo servizio a se stessa e all’Europa. Perché è su questa base, che il Consiglio Ue ha celebrato invece la rinascita dell’asse franco-tedesco. Sull’Ucraina e su tutti i dossier economici.

 

C’era un’alternativa? Sì, c’era. Sull’Ucraina, Parigi e Berlino restano il più possibile restii ad aiuti militari rapidi e davvero efficaci. Il tramestio tedesco è durato mesi sui tank all’Ucraina, ed è finito in un’autorizzazione agli altri paesi europei – che ormai li hanno solo ad arrugginire nei depositi – a cedere i vecchi Lepoard1 ricondizionati, nessun Leopard2 e tanto meno delle versioni aggiornate A6 e A7. L’Italia può far poco, i suoi vecchi carri Ariete non sono un granché, e la nostra Aeronautica fa già al massimo la sua parte nelle operazioni Nato di pattugliamento contro la minaccia russa nel Baltico e in Centro Europa. Lo spazio per un’iniziativa italiana da ottobre a oggi era il rinsaldamento diretto del rapporto con i membri baltici ed est europei della Ue e della Nato, che a differenza del vecchio asse franco-tedesco avvertono direttamente il fiato sul collo dell’espansionismo militare russo, e che non a caso danno militarmente all’Ucraina in proporzione molto più di quanto facciano i grandi paesi europei. Oltretutto il governo Meloni aveva un’autostrada preferenziale per farlo, il rapporto privilegiato con la Polonia, euroscettica e antieuropea nelle sue politiche interne sui diritti e l’indipendenza della magistratura, ma totalmente anti Putin e in prima fila in Ue per aiuti militari sin qui concessi a Kyiv. Se questa strada non è stata battuta dal governo, è perché evidentemente hanno pesato molto i persistenti forti legami con Putin presenti nei partiti della destra italiana a cominciare da Salvini e Berlusconi, e la storica radice antioccidentale e antiamericana della destra sociale, che prevaleva nel nucleo della destra ex missina confluito in Fratelli d’Italia. Ma continuare a guardare al passato significa disconoscere (pur senza dirlo) che di Salvini e Berlusconi Putin si è servito, come in molti altri paesi occidentali ha coltivato agenti a proprio vantaggio, e che quella storia con l’invasione ucraina è finita per sempre.

 

Tanto più se sei una giovane presidente del Consiglio che vuole costruire un nuovo modello di destra di governo che si radichi nel futuro del nostro paese, devi giocare al meglio le tue carte per un ruolo non marginale rispetto alla nuova realtà tutta da costruire di un’Europa e una Nato costrette a uscire dal sogno dell’appeasement con lo stragista Putin. Devi capire al volo perché i cechi hanno preferito come nuovo presidente l’ex generale atlanticissimo Petr Pavel al nazionalista Babis filo russo, e perché le prime due telefonate internazionali del neopresidente ceco sono state per Zelensky e per il premier di Taiwan, lontana decine di migliaia di chilometri da ogni possibilità per la Repubblica ceca di giocare un qualsivoglia ruolo diretto a difesa dalle pretese di “unificazione” con la Cina attraverso un attacco militare. Se non lo fai, o se non hai tempo di farlo, paghi un prezzo salato rispetto alle tue ambizioni. Perché viviamo una fase della storia in cui strappi e accelerazioni richiedono prontezza assoluta, analisi immediate, decisioni nuove e revisioni drastiche di vecchie dottrine. E diciamola tutta: non è solo il governo Meloni che stenta a capirlo. È un dramma riproposto tale e quale in termini diversi dalla sinistra all’opposizione, che nel lungo autodafé suicidario del Pd è tornata al ritornello pace-pace-pace a qualunque condizione e cioè assecondando Putin e le sue pretese annessionistiche, ritornello in cui vecchi riflessi filo-moscoviti e anti-occidentali vanno a braccetto con rifiuto del mercato e liquidazione di ogni famigerato tentativo del passato in cui la sinistra tentava di indossare l’abito riformista dismettendo la casacca dell’antagonismo. Non solo Renzi, mostro per definizione per ogni candidato a guidare il Pd, persino il mite Enrico Letta alla fine sembra esser diventato troppo atlantico e troppo mercatista. Altrettanto possibile era giocare un ruolo del tutto diverso sulle partite economiche. Andiamo direttamente al punto centrale: la risposta da dare non solo all’accelerazione degli obiettivi di transizione energetica, ma alla sfida sino-americana sull’eccellenza e l’autonomia che le due grandi potenze continentali esplicitamente perseguono con i loro maxi stanziamenti di sussidi e incentivi alla propria industria nazionale.

 

Anche su questo, partiamo dai tempi. Sappiamo benissimo che il governo italiano è stato impegnato nei suoi due primi mesi dalla legge di Bilancio, alla quale la maggioranza è arrivata senza averne discusso prima, e di cui molto apprezzabilmente il governo ha contenuto i saldi pubblici, salvaguardando meglio di quanto moti credessero la credibilità dell’Italia verso i mercati e verso la Ue. Ma né questo, né le partite aperte su Tim, Ita ed ex Ilva, né le centinaia di nuove nomine pubbliche nelle società partecipate pubbliche in preparazione di qui alla primavera e che molto ingolosiscono i partiti di maggioranza, niente di tutto questo può giustificare l’inerzia che è sembrata dominare su che cosa intanto bolliva nella pentola europea. Non sto parlando di dichiarazioni e interviste per rassicurare gli elettori che il governo sarebbe stato severo guardiano degli interessi nazionali. Quelle son cose che lasciano il tempo che trovano. Sto parlando di iniziative dirette e politiche, riservate e pubbliche. Alla lettura nel non-paper mandato dall’Italia a Bruxelles in vista del Consiglio Ue, in cui si chiedeva da parte dell’Europa un’analisi di impatto sulle misure assunte dagli Usa, c’era da farsi cadere le braccia. Un’analoga richiesta due mesi fa era stata fatta dal Consiglio Ue alla Commissione, la quale ha giustamente pensato che ormai su misure Usa come l’Inflation Reduction Act o il Chips Act dell’anno scorso, nonché sugli aggiornamenti che, post ultimo congresso del Pcc, Pechino ha apportato al suo originario maxi piano di sostegno Made in China 2025 (addirittura del 2018), tutti i governi europei potessero abbeverarsi alle migliaia di pagine di analisi che economisti industriali e think tank occidentali hanno compiuto sul tema. Analisi dettagliatissime, e non univoche nell’impatto. Una considerevole parte di economisti ritiene ad esempio che l’Ira non sia troppo temibile per l’Europa sulla parte Green e Automotive, perché l’incentivo del 30 per cento all’acquisto passa al 40 per cento in caso di buy american cioè di prodotti integralmente assemblati in Usa ma senza escludere affatto componenti europee del prodotto stesso. C’è chi ritiene che in definitiva le somme Usa non siano poi molto superiori a quelle che l’Europa ha intanto speso sul fronte energetico (il più delle risorse in Ue però sono state volte a mitigare per imprese e famiglie il sovraccosto energetico di gas ed elettricità, in Usa no). C’è una parte di economisti che saggiamente ritiene che la risposta Ue non debba essere di protezionismo muro contro muro, perché il nostro interesse come industrie di trasformazione e di paesi largamente importatori – tranne pochi – di energia e materie prime è semmai quello di negoziare con gli Usa affinché le nome attuative di Ira e Chips Act siano il più possibile concertate mirando contro la Cina, non contro l’Europa. Ma la vasta maggioranza degli analisti ritiene che un punto è chiaro: la lezione sul gas dovrebbe insegnare all’Europa che la dipendenza da semiconduttori e terre rare significa consegnare il proprio sviluppo industriale alla Cina, se l’Europa non recupera il gravissimo gap accumulato perdendo sia quote di mercato mondiale sui chips avanzati sia nell’approvvigionamento di input essenziali alla produzione europea. 

 

Ebbene non era affatto già scritto, che la partita finisse con la scelta di finanziare tutto questo soprattutto con deroghe agli aiuti di stato nazionali. Una via che ovviamente penalizza l’Italia, che ha la seconda manifattura europea ma non ha agibilità fiscale per via del suo maxidebito pubblico. È vero: il 19 dicembre scorso i ministri dell’Industria di Germania e Francia tennero una conferenza stampa congiunta in cui indicavano a tutti la via degli aiuti di stato, con ulteriori estensioni rispetto alla seconda revisione al divieto avvenuta nel 2022 di fronte all’invasione russa, mentre la prima era stata di fronte alla pandemia. Ma quella conferenza stampa era il tentativo di creare un fatto compiuto, in realtà la questione vedeva significative divisioni all’interno della Ue. Tutte le Confindustrie europee a novembre si erano pronunciate non tanto a favore di una deroga agli aiuti di stato nazionali che significavano incentivi asimmetrici, ma per “nuovi strumenti finanziari europei e comuni”. Eguale conclusione aveva raggiunto avuto il triangolare confindustriale italo-franco-tedesco a Roma, precedente alla conferenza stampa franco-tedesca. La Commissione europea rispose il primo febbraio pubblicando la comunicazione A Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age, preferendo al momento concentrare la propria attenzione innanzitutto sulla transizione ambientale. La Commissione riconosceva che l’industria è messa a dura prova da diversi elementi: l’alta inflazione, le interruzioni delle catene di fornitura, l’aumento dei tassi di interesse, le impennate dei costi energetici e dei prezzi dei fattori produttivi e, ancora, una forte, ma non sempre equa, concorrenza su un mercato globale via via più frammentato.

 

Il punto di partenza del nuovo Piano industriale era dunque la necessità di sostenere la competitività dell’industria europea e, in particolare, di incrementare in modo consistente lo sviluppo tecnologico, la produzione manifatturiera e l’installazione di prodotti ed energia a zero emissioni nel prossimo decennio, per integrare gli sforzi già avviati attraverso altre iniziative legate al Green Deal europeo e al Piano d’azione per l’economia circolare, nonché a semplificare, accelerare e allineare regole e procedure al fine di preservare l’attrattività dell’Ue come luogo di investimento per un’industria a zero emissioni. Perciò entro la primavera la Commissione si impegnava a presentare Il Net-Zero Industry Act, volto a sostenere la fabbricazione industriale di tecnologie chiave nell’Ue. Individuando gli obiettivi di capacità industriale da raggiungere entro il 2030, riducendo la durata dei processi di autorizzazione per attrarre finanziamenti privati e pubblici, nazionali e dell’Ue. A questo si aggiungeva Il Critical Raw Materials Act, con lo scopo di garantire all’Ue la sicurezza dell’approvvigionamento, anche facilitando l’estrazione (dove necessario), la lavorazione e il riciclo. E la riforma del mercato dell’elettricità, per la quale è in corso una consultazione pubblica. Quanto ai finanziamenti, la Commissione faceva presente che a fini di transizione energetica sono già disponibili 250 miliardi nell’ambito di NextGenerationEU, 40 miliardi per ricerca e innovazione green in Horizon Europe, 100 miliardi dalle politiche Ue di coesione compreso il Just Transition Fund. Per le deroghe agli aiuti di stato, la Commissione era favorevole a “ulteriore flessibilità” a fini ambientali. E ad accelerare le disposizioni attuative dei Progetti importanti di comune interesse europeo (Ipcei) Quanto ai finanziamenti europei, oltre ai 20 miliardi aggiuntivi da REpowerEU, la Commissione si diceva favorevole a che il Consiglio adottasse la scelta di destinare a tal fine anche in tutto o in parte i 225 miliardi di prestiti non utilizzati dagli stati nazionali della Recovery and Resilience Facility che sta alla base dei Pnrr nazionali. Ma, infine, la Commissione si proponeva di proporre “entro l’estate 2023” un Fondo per la sovranità europea, volto a mantenere un vantaggio europeo sulle tecnologie critiche ed emergenti: dalle tecnologie informatiche, tra cui la microelettronica, l’informatica quantistica e l’intelligenza artificiale, alle biotecnologie, alla biomanifattura e alle tecnologie net-zero. Questo strumento strutturale dovrebbe essere volto a favorire un accesso ai finanziamenti da parte di tutti gli stati membri, in modo da salvaguardare il mercato unico dai rischi derivanti da una disponibilità diseguale di aiuti di stato.

 

Come si vede, la Commissione consegnava al Consiglio Ue una vasta gamma di opzioni. Al fondo comune Ue, dissero subito no sette paesi, capitanati da Olanda e Irlanda e Austria, tradizionalmente diffidenti verso fondi a chi ha dissipato finanza pubblica propria. Ma in realtà l’Olanda era anche contraria ad aiuti di stato a briglia sciolta. Idem la commissaria Ue alla concorrenza Vestager, alla cui pressione si deve infatti la formula finale che nel documento del Consiglio Ue parla sì di deroghe aggiuntive agli aiuti di stato ma a condizione siano “mirati, temporanei e trasparenti”, perché “la competitività non si persegue con gli aiuti di stato”, ha ripetuto Vestager. In più anche il partito di Macron aveva dubbi forti sulla sola via degli aiuti di stato che premiano l’industria tedesca rispetto a quella francese nella proporzione di 50 contro 30, mentre a maggioranza era favorevole per il fondo comune Ue. Fatto sta che la presidente Von der Leyen a Davos si sbracciò molto a favore del nuovo fondo Ue. I potenziali alleati dell’Italia a favore del fondo europeo dovevano ancora una volta essere tutti i paesi membri est europei, e i due iberici. Tutti quelli che hanno guardato per mesi con crescente stizza al veto tedesco e olandese opposto all’idea di un tetto Ue al prezzo del gas (efficace o meno, è tutt’altra altra questione). Ma serviva una primaria iniziativa su Macron, volto a spostarlo come portabandiera di un nuovo passo hamiltoniano di debito europeo per beni comuni europei, come sin qui è stato con NextGenerationEu, Sure e Mes. Questa strategia avrebbe portato al Consiglio Ue di venerdì scorso a una situazione del tutto diversa da come invece si è chiuso, cioè allontanando ogni prospettiva realistica di nuovi fondi Ue. La riprova è che 9-10 paesi in realtà non si sono riconosciuti nel documento finale.

 

L’errore numero uno è stato compiuto subito, con le aspre polemiche antifrancesi sui profughi nel Mediterraneo. Errore riparato da Mattarella. L’errore numero due è venuto con la risposta nella conferenza stampa di fine anno liquidatoria sul trattato bilaterale italo-francese la cui firma Draghi aveva accelerato dopo anni di stasi. Dire di non conoscerne il dispositivo e aggiungere che non risultava ancora operativo è stato l’esatto opposto di quel che andava fatto. Con il premier spagnolo Sanchez nessun rapporto, si sa lui è alla testa di un governo di sinistra. Un’asinata: perché la Spagna era esulcerata per l’indifferenza di Macron alla necessità dopo anni di una pipeline energetica transpirenea che consentisse alla Spagna di riversare in Europa l’eccesso di gas ottenibile dai suoi rigassificatori. E così alla fine Macron ha scelto la via tedesca, Sanchez ha firmato un trattato bilaterale con la Francia che è economicamente più performante del nostro, che il governo tiene in non cale. E la Spagna si è portata a casa anche la pipeline con la Francia, anche se non per il gas ma riservata all’idrogeno. Una sconfitta italiana totale. Negli ultimi tre mesi su questo canovaccio dovevano lavorare ventre a terra palazzo Chigi, il Mef e il ministro degli Esteri, non poteva far tutto il povero diligente Fitto che è straoberato di lavoro. 

 

Finisce così che dovremo accontentarci solo di ciò che la Ue accetterà di riallocare dei fondi che non riusciamo a spendere del Pnrr. Ma per far questo almeno bisogna che il governo si impegni a riforme strutturali vere e non annacquate come quelle che si annunciano, mentre abbiamo la bella ide di sparare anche a zero contro la direttiva energetica sugli immobili (che non dice affatto quel che i partiti di destra urlano ogni giorno sui media italiani), e una bella procedura d’infrazione per tutelare i santissimi balneari. Almeno l’Italia poteva battersi per ottenere via libera all’utilizzo in investimenti di eccellenza di tutte le risorse sin qui non utilizzate della programmazione ordinaria europea. Non sarebbe poca cosa. Su 108 miliardi pianificati per l’Italia per gli anni 2014-2020 dai cinque più importanti fondi strutturali Ue, il 30 settembre 2022 ne risultavano spesi solo 64. Sarebbero dunque ben 43 miliardi. Si poteva chiedere di ripetere anche ciò che la Ue decise di fronte al Covid, quando per 12 mesi l’utilizzo dei fondi rimosse il vincolo del cofinanziamento nazionale. E quand’anche, mettiamo per ipotesi, di quei 43 miliardi restanti entro fine 2023 – il termine previsto per utilizzarli, oltra il quale si perdono – l’Italia riesca a spenderne altri 10, ne resterebbero oltre 30 per difendere il mercato unico e non spiazzare l’industria italiana. Bisognerebbe chiedere alla Ue che ci impegniamo a rispettare che venga mantenuto per ogni somma l’utilizzo nelle Regioni italiane previste, ma trasformandoli in crediti agli investimenti industriali per le transizioni e l’eccellenza green e digitale. Avete letto qualcosa di simile, nella posizione italiana al Consiglio europeo? 

 

Rifuggo dal credere che le decisioni dei governi si debbano a ignoranza e incompetenza. Ogni governo ha intorno a sé strutture tecniche in grado di spiegare in dettaglio a chi governa agende, posizioni e vie da percorrere. Il problema di fondo è semmai la visione culturale a cui i governi fanno riferimento. So bene che per il governo attuale la cultura di riferimento non è quella del federalismo europeo. Allora però almeno rileggano un maestro della loro cultura, Ernst Jünger, combattente stradecorato nella Prima e Seconda guerra mondiale. Jünger, che nel dopoguerra post nazista si divise da Carl Schmitt teorico della lotta tra imperi di terra e imperi anglosassoni del mare, e in scritti come La pace vide invece l’avvicinarsi di un WeltStaat mondiale auspicabilmente fondato sui principi di “libertà, giustizia e difesa della persona che circondano l’Europa come frontiere migliori e più solide che mari, monti e fortificazioni, perché in Europa abbiamo la capacità di rispettare qualcosa che determina la dignità dell’uomo. Quando non si ha più la percezione di questi veri confini e non se ne avverte neanche più la mancanza, ha inizio il dispotismo”. Rileggano Jünger, faranno meno errori.