A chi gli ombrelloni? A noi!

Meloni cede al ricatto di Lega e FI sui balneari, pur sapendo di complicare la strada del Pnrr

Valerio Valentini

Fitto aveva avvisato: non si scherza con Bruxelles su questo dossier. In ballo c'è il Recovery. Ma al Senato, Ronzulli e Romeo preparano il blitz a FdI, che alla fine si arrende. Il conflitto col Consiglio di stato e quello, ancor più preoccupante, con la Corte di giustizia europea

L’argomentazione che alla fine ha risolto la disputa è stata quella di Maurizio Gasparri. Che, parlando coi colleghi del centrodestra, a un certo punto ha avvisato: “Mica possiamo comportarci pure noi come i nipotini di Giavazzi”. E tanto è bastato perché Palazzo Chigi decidesse di alzare la mani. E sì che le raccomandazioni di Raffaele Fitto, appena quindici giorni fa, erano state cristalline e perentorie. Perché di mezzo ci sono il Consiglio di stato e la Corte di giustizia europea, e poi si rischia di compromettere il Pnrr: e insomma, sui balneari è meglio non fare azzardi. E tanto cristalline erano parse, quelle raccomandazioni, e tanto perentorie, che al dunque i senatori di Forza Italia e della Lega se ne sono impipati. E il mezzo blitz sul Milleproroghe è riuscito. Ché Giorgia Meloni, piuttosto che passare, lei sola, come traditrice dei gestori dei lidi, dopo essersi già inimicata i benzinai, ha ordinato la resa. E l’accenno di ragionevolezza di Fitto è stato  fermato sul bagnasciuga. 

E così questo ennesimo incapricciamento sovranista rischia di produrre paradossi. Anzitutto col Consiglio di stato. Perché i massimi giudici amministrativi, a novembre 2021, avevano stabilito che tutte le concessioni sarebbero decadute al massimo a dicembre del 2023. “Non possono certo essere i diktat di alcuni togati a limitare le prerogative del Parlamento”, dice ora Fabio Rampelli, meloniano eterodosso da sempre alfiere del patriottismo da ombrellone. Solo che in questo caso non si tratta di “alcuni togati”: quella sentenza fu emessa dall’adunanza plenaria del Consiglio di stato. Per cui il conflitto istituzionale si preannuncia inevitabile, tanto più che i giudici amministrativi stabilirono che qualsiasi norma  in conflitto col loro pronunciamento si sarebbe dovuta  disapplicare. 

Ma per quanto surreale, questo cortocircuito non è neppure il più grave tra quelli che incombono sulla faccenda. Perché la sentenza che davvero spaventa Palazzo Chigi è un’altra, ed è quella della Corte di giustizia europea, chiamata a dirimere un caso sollevato dal Tar di Lecce. Il tutto avverrà nel giro di qualche settimana, un paio di mesi al massimo. E l’esito, stando a quanto Fitto ha già confidato ai colleghi di governo, è scontato.  Il fatto che la Corte si sia convocata in modalità semplice, senza dunque prevedere una camera di consiglio, è un indizio che ha convalidato i sospetti del ministro per gli Affari europei. E del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che proprio sull’attuazione della direttiva Bolkestein l’Italia è sotto procedura d’infrazione. La sentenza della Corte di giustizia la renderebbe immediatamente effettiva, quella direttiva: da un minuto dopo, tutti i gestori saranno potenzialmente abusivi, col caos di baruffe legali che ne conseguirebbe. 

E c’è di più. Perché un anno fa la Commissione aveva congelato la lettera con cui si procedeva a un’ulteriore messa in mora del paese in virtù dell’esistenza di un provvedimento, il ddl Concorrenza, che assegnava al governo Draghi una delega per avviare le procedure di gara. La delega scade a fine febbraio. E a quel punto l’esacerbazione dei rapporti con Bruxelles sarà inevitabile. In un momento, peraltro, in cui quel rapporto è già di per sé sufficientemente delicato da sconsigliare qualsiasi forzatura: perché le procedure di convalida dei 55 obiettivi del Pnrr di dicembre si stanno rivelando più macchinose del previsto. Proprio sull’effettiva attuazione di alcune parti del ddl Concorrenza i funzionari di Ursula von der Leyen stanno chiedendo chiarimenti. Da questo giudizio passa l’erogazione dei 19 miliardi di fondi europei. Indisporre la Commissione, sia pure su una questione non direttamente contenuta tra i target del Pnrr, non è il massimo.

E però, se a Palazzo Chigi, pur consapevoli di questi rischi incombenti, seguono la via della propaganda, è perché, come ritrovandosi trascinati in una specie di gaudiosa corsa al massacro, nessuno osa passare per il pavido della situazione. Passare insomma per “i nipotini di Giavazzi”, nel senso del consigliere economico di Mario Draghi, anche no, ai patrioti deve sembrare il massimo degli affronti. Alla vigilia delle regionali, poi, figurarsi. Perché in fondo la strategia seguita da FI e Lega è stata questa: fomentare le pretese delle categorie di settore per poi avvisare Fitto che, se avesse voluto perseverare nella via del buon senso, avrebbe allora dovuto intestarsi l’abiura, “perché noi l’emendamento al Milleproroghe lo presentiamo lo stesso, e poi si vedrà chi sta coi lavoratori e chi contro”. E certo i video di Meloni che inveiva contro Draghi sulla Bolkestein hanno fatto il resto. Così in FdI sono corsi ai ripari. E sabato il deputato Gianluca Caramanna, responsabile Turismo del partito, ha convocato su Zoom i sindacati dell’ombrellone. A quel punto, al  meloniano  Luca Ciriani, responsabile dei Rapporti col Parlamento, non è rimasto che sancire la resa: gli emendamenti firmati, tra gli altri, dai capigruppo di FI e Lega, Licia Ronzulli e Massimiliano Romeo, passeranno senza che i senatori di FdI li sottoscrivano, ma col loro voto decisivo. Chapeau. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.