Meloni e gli aiuti di stato: storia di una patriottica disfatta

Valerio Valentini

Prima le barricate, poi la decisione di cedere, ma con fermezza. Il risultato è che la Germania in un anno di via libera sui sussidi alle imprese spende 300 miliardi più dell'Italia. Che però ottiene 5 miliardi in più per il Pnrr. Bell'affare

Doveva essere la linea del Piave: “Non passa lo straniero”. Finirà come a Versailles, con una vittoria mutilate spacciata per dignitosa. Giorgia Meloni cede insomma con fermezza, visto che la dissimulazione, più o meno onesta, è l’unica strada che pare percorribile, alla vigilia di un Consiglio europeo da cui l’Italia esce assai ridimensionata nelle sue pretese di incidere nei dossier economici decisivi. La normativa sugli aiuti di stato passerà, in sostanza, così come la Commissione, quindi la Germania, l’aveva ideata. Quando Ursula von der Leyen, il 10 gennaio scorso, era venuta a Roma per illustrarla alla premier, da Palazzo Chigi avevano voluto mettere a verbale: “Così non va bene, si finirà col premiare chi ha più spazio fiscale”. Cioè Berlino, appunto. Ed è proprio questa la piega che prendono gli eventi. Cosicché Meloni è costretta a rivendicare la concessione di flessibilità sul Pnrr. Sai che affare. 

Che il compromesso accettato dal governo Meloni sia assai poco patriottico, del resto, è l’evidenza dei numeri a testimoniarlo. Qualche giorno fa, Eurostat ha fornito i dati relativi alle concessioni straordinarie di aiuti di stato autorizzate da Bruxelles a partire da marzo scorso, a seguito dell’invasione ucraina da parte della Russia. In meno di un anno, sono stati approvati 672 miliardi: di questi, la Germania ne ha spesi 356, la Francia 162, l’Italia appena 51. In undici mesi, dunque, la differenza tra Roma e Berlino è stata di 301 miliardi. Però Meloni, con l’accordo che va definendosi in vista del Consiglio europeo, otterrebbe di poter spendere, nei prossimi tre anni e mezzo, 5 miliardi in più del previsto. Queste, stando alle previsioni che circolano tra Palazzo Chigi e la Commissione, sono le proporzioni della “mediazione”.

Sempre ricordando, poi, che quei nove miliardi non sono risorse aggiuntive, ma semplicemente una partita di giro tutta interna al ministero di Raffaele Fitto. Soldi che insomma il fedelissimo della Meloni dovrà sottrarre alla programmazione per la Coesione. A quelli, poi, potrebbero aggiungersi 800 milioni da dirottare dalle politiche agricole a quelle per l’energia. Il resto, cioè, le risorse effettivamente fresche, sono grosso modo 3 miliardi del RePowerEu. Altro, salvo modifiche al momento non contenute nei dispacci europei, all’Italia non sembra dover arrivare. E certo quella di “coordinare” la spesa dei vari capitoli europei è una battaglia che da mesi Fitto porta avanti. Ma, nella forma che va assumendo questa misura, non pare affatto una grande novità: ai tempi del Conte II, il ministro del Sud, Peppe Provenzano, tramite il titolare dei rapporti Europei Enzo Amendola, riuscì a devolvere 12 miliardi di fondi strutturali per il Mezzogiorno alla crisi pandemica.

E dunque ora l’Italia, forte del suo “successo”, si ritroverà a dover fronteggiare una sorta di concorrenza sleale da parte della Germania, e in minor misura della Francia, sulla tutela dell’industria: a Berlino e Parigi potranno spendere molto per convincere le loro imprese a non lasciarsi irretire dai sussidi americani, a Roma assai meno. Si dirà che è poco europeo, questo agonismo fratricida. Ma l’Europa è anche politica: e quella della risposta all’Inflation reduction act è una partita politica che Meloni non sembra abbia voluto giocare. Paolo Gentiloni in più occasioni, e l’ultima il 30 gennaio, intervenendo in un convegno a Berlino, predicando dunque in partibus infidelium, dopo un confronto franco col ministro delle Finanze Christian Lindner, aveva offerto una sponda: “Perché la sola liberalizzazione degli aiuti di stato aumenta la frammentazione e avvantaggia chi può spendere di più, è un approccio poco europeo”. Era un assist al governo italiano. Nessuno lo ha raccolto. Perfino Emmanuel Macron, nelle settimane in cui i rapporti con Olaf Scholz erano più burrascosi, proprio sul varo di un possibile fondo industriale europeo aveva cercato di convincere Meloni a fare fronte comune. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, aveva fatto da ambasciatore. Niente. Forse davvero “mancavano i presupposti per una simile sfida”, come dicono, un po’ sibillinamente, a Palazzo Chigi. Forse, e sarebbe grave, si era tutti troppo rattrappiti sulle polemiche di giornata – e il Pos, e le intercettazioni, e i camerati coinquilini Delmastro e Donzelli – per poter alzare lo sguardo. Forse, e pure questo avrà influito, ci si è fidati poco degli interlocutori europei. Sta di fatto che la linea del Piave non ha retto. E ora toccherà accontentarsi di quel che verrà. Dissimulando, ovviamente.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.