L'editoriale

Come smontare con i fatti l'antimafia della chiacchiera

Claudio Cerasa

Arrestato Messina Denaro, riecco le speculazioni sulla trattativa. Ma lo stato teoricamente colluso è lo stesso che ha vinto negli ultimi trent’anni la guerra alla mafia. Manuale di conversazione per sopravvivere alle insinuazioni maliziose dei retroscenisti

Sono passate due settimane dalla cattura di Matteo Messina Denaro e per uno strano gioco di prestigio più ci si allontana da quella data e più la domanda maggiormente gettonata nei talk-show, rispetto a quell’arresto, tende a essere questa: che cosa c’è dietro? Chiedersi come sia stato possibile che un boss come Matteo Messina Denaro sia riuscito a sfuggire alla giustizia per trent’anni è lecito e forse persino doveroso e non stupisce che il circo mediatico si sia molto appassionato al tema sollevato dal procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia. De Lucia, lo sapete, ha detto che in questi trent’anni c’è stata una fetta di borghesia che ha aiutato Messina Denaro a nascondersi ed è bastata questa frase per spingere i cronisti d’assalto a occuparsi di un tema divenuto un classico del nostro sistema informativo: la trattativa. Ogni volta che in un talk-show televisivo o in un articolo di giornale ci si interroga, con passione, su che cosa c’è dietro l’arresto di Messina Denaro la tentazione, ormai ricorrente, è di occuparsi di ciò che non si vede, e intorno a cui si può dire quel che si vuole, e meno di ciò che si vede, che costringerebbe a spostarsi, traumaticamente, dal piano della fiction a quello della realtà.

 

Abbiamo scelto, con vivo eroismo, di sottrarci alla prima tentazione e di dedicarci, con solida tenacia, alla seconda strada e abbiamo pensato potesse essere utile offrirvi un piccolo ma solido manuale di conversazione per sopravvivere alle chiacchiere maliziose sponsorizzate da quella che Giuseppe Sottile ha definito l’antimafia dei retroscena. Primo punto: che fare quando qualche interlocutore evoca la famosa trattativa stato-mafia? Molto semplice: ricordare che in Italia ci sono stati quattro processi sulla trattativa stato-mafia, che ciascuno di questi processi si è concluso con un’assoluzione e che le sentenze in uno stato di diritto dovrebbero valere più dei sospetti. Nel dettaglio. Nel 2006 sono stati assolti i carabinieri del Ros accusati di favoreggiamento per la ritardata perquisizione del covo di Riina (la procura di Palermo, in quel caso, non fece neppure ricorso). Nel 2016 sono stati assolti i Carabinieri del Ros accusati di aver mancato più volte la cattura di Bernardo Provenzano (erano Mori e Obinu). Nel 2020 è stato assolto l’ex ministro Calogero Mannino, dopo una gogna infinita durata venticinque anni, venticinque anni di processo: Mannino era accusato di aver intavolato una trattativa tra lo stato e la mafia. Nel 2022, infine, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto Mario Mori, insieme agli ufficiali del Ros Subranni e De Donno, dalle accuse di “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”.  La loro azione – hanno scritto i giudici – è stata esclusivamente “un’operazione investigativa di polizia giudiziaria” tesa a infiltrare Ciancimino all’interno della cosca e a catturare i boss corleonesi, primo fra tutti Totò Riina, divenuto nel frattempo il “capo dei capi”. Dunque, ripetete forte. Non è vero che Provenzano non è stato arrestato quando poteva essere arrestato. Non è vero che si è scelto dolosamente di traccheggiare sul covo di Riina.

 

Non è vero che coloro che sono stati individuati come i due canali di collegamento tra mafia e stato hanno commesso reati. Potrebbe bastare questo per far crollare, d’un tratto, il castello di carte costruito dai professionisti del retroscenismo antimafioso, e sarebbe forse anche utile chiedersi cosa sarebbe successo se la magistratura avesse dedicato più tempo, più energia, più risorse, più investigatori alla lotta contro la mafia piuttosto che alla lotta contro chi ha combattuto la mafia, e se per caso l’essersi occupati per molti anni di fuffa abbia contribuito a sottrarre tempo prezioso alla lotta contro la mafia (ci sarebbe quasi quasi da fare un’inchiesta, no? Scherziamo). Potrebbe bastare questo ma vogliamo essere precisi e allora – oltre a ricordare, come sempre, che mentre l’antimafia della chiacchiera cercava di acchiappare farfalle l’antimafia dei fatti faceva arrestare Bagarella, Brusca, Provenzano, Riina, Lo Piccolo, Nicchi e Messina Denaro, dimostrando che non è vero che la mafia ha fatto patti con lo stato e non è vero che in questi trent’anni lo stato si è indebolito nei confronti della mafia – potrebbe essere utile partire da un dato poco valorizzato negli ultimi giorni dalle cronache dei giornali. Il dato lo ha offerto giovedì scorso il presidente della Cassazione quando ha notato che negli anni Novanta, in Italia, morivano circa 1.900 persone all’anno, a causa di omicidi, e morivano per lo più a causa di omicidi organizzati dalla criminalità organizzata, mentre oggi gli omicidi sono circa 300 all’anno. Significa che la criminalità organizzata è stata messa nelle condizioni di non essere più pericolosa per le nostre vite, com’era un tempo, e la ragione, che i retroscenisti dell’antimafia non vogliono vedere, è legata a un fatto semplice, che poi è l’essenza vera dell’arresto di Messina Denaro: lo stato potrà fare anche errori, ovvio, ma più passa il tempo e più si rafforza mentre la mafia si indebolisce.

 

E così, come racconta Maurizio Catino, nel saggio del Mulino che trovate pubblicato oggi sul Foglio, la forza dello stato non si vede solo nel numero degli arresti ma anche nei risultati della consistente e continua attività repressiva portata avanti contro la mafia. Sono 17.391 le persone arrestate per reati connessi alla mafia in Italia dal 1982 al 2017. Sono più di 450 le condanne all’ergastolo per omicidi di mafia comminate nel solo distretto di Palermo dal 1992 al 2006 (mentre erano state soltanto 19 nel primo grado del maxi processo e circa una decina nei 100 anni precedenti). Sono 200 i consigli comunali e provinciali che sono stati sciolti nello stesso periodo per infiltrazioni mafiose avvenute negli ultimi decenni. Ed è un fatto che le mafie siano state e continuino a essere colpite finanziariamente dalla costante attività delle forze dell’ordine. I fatti dicono questo. Dicono che l’antimafia della chiacchiera ha passato molti anni a rincorrere farfalle. Dicono che l’antimafia dei fatti da anni ottiene risultati nonostante l’antimafia della chiacchiera cerchi da anni di demolire la reputazione di chi lotta contro la mafia. E dicono che alimentare dubbi sullo stato colluso con la mafia, cedendo alla spirale di “tribunalizzazione della storia” che spinge i magistrati a usare le tendenze per storicizzare i fatti piuttosto che per perseguire chi commette i reati, non è solo una perdita di tempo ma è anche qualcosa di più grave: una mancanza di rispetto nei confronti di chi lotta contro la mafia e di chi da trent’anni cerca di dimostrare con la forza dei fatti che lo stato teoricamente colluso con la mafia è lo stesso che ogni giorno fa del suo meglio per fare quello che in questi trent’anni è riuscito a fare bene: arrestare la mafia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.