(foto EPA)

Il tabù sfatato da Meloni: una destra non escludente sull'identità nazionale

Giovanni Belardelli

Il discorso della premier al Ghetto ebraico è significativo perché segnala una svolta storica della sua area politica a proposito dell'ebraismo

Ha suscitato molti commenti la partecipazione della premier Meloni alla festa ebraica di Hannukkah, per la commozione dalla quale è stata sopraffatta ma anche per le parole da lei pronunciate. Sulle leggi antisemite del 1938 la presidente del Consiglio si è limitata a citarle come un’ignominia; ma poteva non aggiungere altro, perché era stata molto esplicita in precedenti occasioni. Nel suo discorso alla Camera del 25 ottobre le aveva definite “il punto più basso della storia italiana, che segnerà il nostro popolo per sempre”. Parole riprese alla lettera pochi giorni fa, in occasione dello scoprimento di una lapide in ricordo dei giornalisti ebrei romani radiati dall’albo, quando ha anche aggiunto che quelle leggi rappresentano “una macchia indelebile, una infamia che avvenne nel silenzio di troppi”. Su questo, insomma, non c’era molto altro da dire.

 

Il motivo di interesse del suo breve discorso del 19 dicembre risiede piuttosto nell’aver voluto coniugare il tema dell’identità – centrale nel percorso politico e culturale della premier – con l’ebraismo, in almeno due modi. In primo luogo l’ebraismo è stato da lei considerato, forse per la prima volta da parte di chi è il massimo leader della destra italiana, una parte fondamentale dell’identità del paese, ma di una “identità non escludente”, capace di “contaminarsi” (e chi conosce un po’ la storia europea sa quanto ogni corrente razzista abbia provato un vero terrore di fronte alla possibilità di “mescolarsi”). Si è trattato di parole importanti, ma non meno interessante è stato il secondo riferimento all’identità, che mi pare generalmente abbia avuto una minore attenzione. In sostanza, la premier ha esaltato nella storia del popolo ebraico tre elementi fondamentali – “identità, tradizioni e fede” – che vengono spesso considerati nella società contemporanea, ha affermato, “un limite, quando non addirittura un nemico” e rappresentano invece la fonte del coraggio e della forza mostrati dagli ebrei attraverso i secoli.

Ciò che in sostanza Meloni ha cercato di fare è di ribadire un tema molto presente nella sua storia di militante della destra post-missina, attraverso una revisione che lo renda attuale, in una temperie culturale come quella odierna che vede invece una parte importante della sinistra intellettuale e della cultura mainstream considerare ogni rivendicazione dell’identità come l’anticamera del razzismo e del fascismo. A chi bolla l’identità come un’ossessione dalla quale rifuggire come la peste (L’ossessione identitaria di Francesco Remotti è uno dei tanti libri sull’argomento), come qualcosa che condurrebbe inevitabilmente a massacri quali quelli della ex Jugoslavia o del Rwanda, Meloni sembra contrapporre un’idea di identità per un verso “non escludente” (dunque non discriminante, compatibile con i valori di una democrazia) e per l’altro che prende a esempio l’antichissima identità ebraica, diventando in questo modo un riferimento assai difficile da attaccare come qualcosa che sa di fascismo.

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