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Governo Meloni ai blocchi di partenza

Mantovano è il sottosegretario che non si aspettavano in FdI (a parte qualcuno)

Pugliese come il predecessore draghiano Roberto Garofoli, ma con un passato governativo tra An e Pdl

Marianna Rizzini

C’è chi pensa che sia stato nominato per le tesi sulla bioetica, ma è la robustezza giuridica il primo motivo. Al governo con Berlusconi, a differenza del Cav. ha votato la fiducia a Monti. La lotta elettorale a Gallipoli con D'Alema, il "caso Granata", la lettura di Dostoevskij applicata all'Ucraina, la scomparsa della moglie amatissima, la fede e la ragione

 “La realtà non è quella sembra”, dice l’esponente di Fratelli d’Italia commentando la nomina a Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio di Alfredo Mantovano, già magistrato, parlamentare e sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi II e IV nonché “montiano” dell’allora Pdl (così detto dal giorno del dicembre 2012 in cui, a differenza del Cav., Mantovano ha votato la fiducia a Mario Monti). La realtà non è quella che sembra e la nomina di Mantovano nel posto che in molti pensavano destinato a Giovanbattista Fazzolari, fedelissimo di Giorgia Meloni, ha spiazzato “come una pagina del giallo del momento, ‘Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno’”, scherza un parlamentare di Forza Italia, alludendo al best seller di Benjamin Stevenson che campeggia in tutte le librerie Feltrinelli in questi giorni di fiducia al nuovo governo — e di investiture e polemiche sul cambio inesorabile dei tempi. Due indizi fanno una prova, ed ecco che un intellettuale vicino al centrodestra fornisce il secondo: “Mantovano sembra il più conservatore dei conservatori sui temi etici, ma non è per quello che è lì, e poi non è il più conservatore sui temi non etici”.

 

Ci si mette, a disegnare i contorni del giallo, anche l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito che, a nomina di Mantovano appena decisa, scriveva su Twitter: “Attenti ad Alfredo Mantovano, la vera sorpresa del governo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Per chi non lo ricorda, è persona seria e di valore”. E dunque, a chiedere informazioni su Mantovano, non si ottiene mai la stessa risposta. In ordine sparso: “Fine giurista”, dicono alcuni. “Magistrato d’esperienza”, dicono altri. “Teocon moderato”, “ratzingeriano integralista”, dicono altri ancora. “Esperto conoscitore della macchina governativa”, dicono infine i pragmatici. “Uno che non ti fa certo fare una cappellata”, aggiungono i preoccupati e i previdenti in area meloniana. E però in molti concordano sul fatto che sia lui l’uomo giusto per sostituire, da Puglia a Puglia, il sottosegretario uscente Roberto Garofoli, diversissimo in tutto tranne che per due dettagli: l’appartenenza alla magistratura e a quella alla stessa terra di Puglia (ma tarantino) dove Mantovano, in un giorno lontano del 2001, si trovò a combattere per un seggio in quel di Gallipoli con il conterraneo Massimo D’Alema, protagonista di una vittoria allora sofferta: a D’Alema andò il 51,1 per cento dei voti, a Mantovano il 45,5 – anche se all’inizio dello spoglio era parso il contrario e anche se D’Alema si era poi mostrato al pubblico nell’insolita veste del candidato di cuore che “sa anche combattere con passione”, e però Mantovano aveva intanto lanciato un misterioso j’accuse interno durante la campagna elettorale (“sono in vantaggio, ma c’è gente che corre con Forza Italia e poi vota per D’Alema”). In quell’occasione, intervistato da Repubblica, Giovanni Pellegrino, che era stato senatore per gli allora Ds, poi presidente della Commissione Stragi, aveva dato la sua spiegazione del fenomeno, facendo riferimento a uno strano genius loci capace di rendere trasversali i grandi elettori di centrodestra: “Nel Sud non abbiamo possibilità di vittoria se non riusciamo a sfondare nel campo avversario”.

   

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Vent’anni dopo, D’Alema guarda Mantovano dall’esterno. Dall’interno lo guarda invece l’ex fratello-coltello nel centrodestra che fu Raffaele Fitto, sempre pugliese e salentino nonché attuale ministro per gli Affari europei, le politiche di Coesione e il Pnrr. Ci furono tempi in cui Fitto e Mantovano giravano per la Puglia “metaforicamente l’un contro l’altro armati” nel senso della leadership del centrodestra locale, racconta un cronista pugliese. Ma ora Nemesi ha voluto che Fitto, riavvicinatosi a Mantovano, sia uno dei pochi ad aver saputo in anticipo che Giorgia Meloni avrebbe chiamato il magistrato a Palazzo Chigi. Non solo. Fitto è stato tra i primi a manifestare vicinanza a Mantovano nell’ultimo periodo di lutto gravissimo per la recente scomparsa dell’amata Silvia Fiorentino, docente e moglie del sottosegretario, madre dei suoi tre figli e donna amata dai tempi del liceo e dell’università, quando entrambi erano studenti cattolici nel gruppo “Impegno studentesco” e scrivevano sulla Voce del Sud. In Puglia li ricordano, dice un amico, “giovani, in motorino, sempre di corsa” oppure “a passeggio mano nella mano, al mare”.

 

Ultraconservatore su vita, fine vita e unioni civili, Mantovano si è laureato alla Sapienza nel 1983 con una tesi sulla costituzionalità della legge italiana sull’aborto. E su bioetica, famiglia, droghe, matrimoni gay ed eutanasia l’attuale sottosegretario non ha mai nascosto le proprie idee (anzi) né durante le assemblee di partito né nei saggi né negli editoriali su Tempi o su questo giornale né come esponente di Alleanza Cattolica o come vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, il gruppo di giuristi – magistrati, avvocati, docenti universitari, notai – che, si legge sul sito dell’associazione, “traendo esempio dal giudice ucciso per mano mafiosa nel 1990 e proclamato beato il 9 maggio 2021, studia temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limiti della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale”. Ma non è per questo, ripetono dentro e fuori da FdI, che Mantovano si trova adesso dove si trova. “Direi che l’elemento più solido di questo governo è Mantovano, uomo che conosce la legge e che non lascia nulla all’improvvisazione”, dice Gaetano Quagliariello, che con il sottosegretario ha condiviso anni di comune opposizione a Fitto (in quel di Bari, l’uno, e in quel di Lecce, l’altro), e vai a pensare che poi, come si è detto, Fitto e Mantovano si sarebbero ritrovati colleghi di governo. “Più che altro è il resto che conta”, dice un meloniano, alludendo alla lunga esperienza governativa di Mantovano, dal Copasir all’Antimafia, passando per l’incarico di viceministro dell’Interno con delega alla Sicurezza (nel 2008), con nette posizioni in tema di giustizia (in direzione della separazione delle carriere e contro quella che ha più volte descritto come autoreferenzialità della magistratura) e in tema di terrorismo (nel 2006, per Rubbettino, ha scritto “Prima del kamikaze. Giudici e legge di fronte al terrorismo islamico”).

 

Inizialmente giudice penale al Tribunale di Lecce, Mantovano, che dal 2018 è stato consigliere della Corte di Cassazione, è entrato in in politica come deputato nel 1996. Da sottosegretario all’Interno si è occupato del “pacchetto sicurezza”, in particolare di contrasto alle mafie, immigrazione clandestina e sicurezza urbana, e da coordinatore per il Comitato per l’Islam italiano, nel 2011, ha ispirato l’Unità di crisi per l’emergenza immigrazione. Nel maggio scorso, a Milano, durante la convention di Fratelli d’Italia che ha ufficiosamente aperto la campagna elettorale, ha parlato per sedici minuti di famiglia, e c’è chi allora, in FdI, si è ricordato di quando il magistrato, da finiano convinto in An, si era ritrovato dalla parte non finiana di An, per via della svolta libertaria dell’allora presidente del partito (vedi fecondazione assistita). Fatto sta che a Milano, alla convention suddetta, Mantovano ha parlato “dell’altro spread: quello che riguarda il divario tra nascite e morti”, con toni apocalittici: “E’ come se nel 2021”, diceva parlando delle mancate nascite rispetto alle morti, “fosse scomparsa una città come Bari o Catania”, motivo per cui il lontano 1964 gli sembrava “paleolitico” per quanto riguardava i nuovi nati, oltre un milione (era l’anno del boom, diceva Mantovano, ma è un fatto “che oggi ci si sposa meno che in tempo di guerra” e che bisogna “cambiare prospettiva e aiutare la famiglia a prescindere dal reddito e dall’Isee”). Ma la fiducia risposta da Meloni affonda nella relativa notte dei tempi finiani, prima che la querelle bioetica attraversasse An. Il peso di Mantovano cresceva nel partito all’indomani della cosiddetta congiura della Caffettiera, dal nome del bar a due passi della Camera che fu teatro di un colloquio tra “colonnelli” del partito, da cui l’azzeramento dei vertici di via della Scrofa da parte dei Fini e la ricognizione in An alla ricerca di uomini meno identificabili con questa o quella corrente, tra cui Mantovano, finiano non di provenienza Msi. Anni dopo, nel 2010, è stato Mantovano, da sottosegretario all’Interno, a essere messo sotto accusa dal finiano (poi a sua volta accusato da altri esponenti del partito) Fabio Granata, per non aver voluto dare la patente di pentito a Gaspare Spatuzza. “Il presidente della commissione che vaglia le posizioni dei dichiaranti che vogliono ottenere il programma di protezione, Alfredo Mantovano, si è risentito per le sue dichiarazioni, chiedendo al presidente Fini di essere tutelato”, faceva notare il quotidiano la Stampa a Granata. “Stimo Mantovano. Dico subito che secondo me ha commesso un errore di valutazione”, rispondeva Granata: “Tutto qui, nulla a che vedere con il sospetto di collusione con la mafia. Si può esprimere una critica? Lo dico perché sono consapevole che Mantovano è un magistrato e insieme al ministro dell’Interno Maroni ha ben condotto l’azione di contrasto alle mafie”. A quel punto insorgeva l’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa: “Granata chieda scusa oppure lasci il partito… L’amico Fabio deve fare nomi e cognomi e offrire indizi forti sui pezzi del governo che starebbero ostacolando la lotta alla mafia e in quel caso sarei io a lasciare il Pdl”. “Attaccano me per colpire Fini, hanno strumentalizzato le mie parole”, era la risposta di Granata. Mantovano interveniva alla fine: “Evitiamo di usare questioni serie, come la lotta alla mafia e la corruzione, per una resa dei conti dentro un partito”. Nessuno immaginava, allora, l’arrivo di Mario Monti. Che Mantovano sosterrà fino alla fine, per poi non ricandidarsi, rientrare in magistratura e dedicarsi alla famiglia, alle letture (Fedor Dostoevskij in testa) e alle camminate in montagna e in città.

 

E proprio Dostoevskij gli è tornato utile, nell’agosto scorso, per ragionare su Tempi su come la guerra in Ucraina potesse essere a suo avviso “occasione per ripensare l’Europa” (sottotitolo: “Bruxelles ha davanti a sé la scelta fra la concretezza di Varsavia o le chiacchiere di Capalbio”, con riferimento, scriveva Mantovano, da un lato, ai “milioni di profughi ucraini accolti, curati, nutriti e alloggiati sul territorio polacco” e dall’altro alla rivolta maremmana del 2016 contro l’arrivo di cinquanta migranti: “…È stata una attualizzazione – come lo è il ripudio del club di Bruxelles di Polonia e Ungheria – della distinzione fra l’amore per l’umanità e l’amore per le persone singole e concrete”, di cui scrive Fëdor Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”). E così Mantovano citava lo scrittore: “Quanto più amo l’umanità, tanto meno amo gli uomini in particolare, cioè presi separatamente, come singoli individui. Non di rado, fantasticando, sono arrivato a progettare con passione dei modi per servire l’umanità, e forse sarei davvero salito sulla croce per gli uomini, se fosse stato necessario, ma intanto non sono in grado di convivere per due giorni nella stessa camera con un altro, chiunque sia; lo so per esperienza…”. Allo stesso tempo Mantovano conosce bene il diritto Ue, e, dice un collega giurista, “nonostante sia un cattolico tradizionalista, non è tacciabile di integralismo nelle sentenze né di sovranismo rispetto ai trattati europei che ha sempre mostrato di considerare prioritari”. Il giallo si infittisce: quale profilo di Mantovano prevarrà, alla fine?, si domandano in particolare in Forza Italia ma anche in Fratelli d’Italia, dove la sua nomina è giunta per alcuni aspetti inattesa. Lui, intanto, il sottosegretario, ha confidato a un amico che “come sempre” lo sorreggerà la fede. Non per niente uno dei suo motti è: “Cristo cc’è sempre anche se mi distraggo e lo credo assente”. E non per niente si sente un sopravvissuto: molti anni fa il fuoco divampò a un tavolo di un ricevimento in un albergo di Lecce, incendiando una tovaglia, e poco ci mancò che Mantovano finisse tra i grandi ustionati. Per fortuna si salvò, ma da allora – questa almeno è la supposizione di un caro amico – “è parso sempre più convinto e sereno nelle sue convinzioni, religiose e non”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.