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Tajani per Meloni è un rompicapo: si dissocia dal Cav. per non perdere la Farnesina

Valerio Valentini

La leader di FdI si fida quasi solo di lui, in FI. Ma dopo gli audio del Cav. lex presidente del Parlamento rischia di essere unfit come ministro degli Esteri. Come se ne esce? Gli sbuffi di Terzi di Sant'Agata e Urso. L'incontro burrascoso con Draghi. Le tensioni con la Ronzulli, che si augura che finisca al Mise

E’ l’anello di congiunzione che rischia di diventare l’anello che non tiene. La quinta colonna che periclita. “Sulla caratura internazionale di Antonio Tajani non c’è neppure da discutere”, dice Luca Ciriani, meloniano di ferro. E lo dice senza fingere. Solo che poi, sotto garanzia di anonimato, altri fedelissimi di Donna Giorgia riflettono che no, “non è affatto scontato che possa restare il candidato d’obbligo per la Farnesina”. Di più: “E’ morto”. E il paradosso è che a ucciderlo sarebbe stato, con chissà quale grado di inconsapevolezza, lo stesso Silvio Berlusconi che lo ha voluto ai vertici del partito. “Le dichiarazioni del Cav. su Putin e Zelensky? Mi riservo di non commentarle, che è meglio”, sbuffa Giulio Terzi di Sant’Agata, l’ambasciatore eletto al Senato con FdI.

Adolfo Urso, che già studia da ministro della Difesa, se la cava così: “Come presidente ancora in carica del Copasir, ho il vantaggio di dover esimermi dal rilasciare interviste su questioni diplomatiche”. Giovanbattista Fazzolari, l’uomo delle ambasciate, prossimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, spiega che “non mi occupo di rapporti con gli alleati”. E in questo laconico imbarazzo dei vertici di FdI c’è tutta la difficoltà di dover assistere a questo “stillicidio quotidiano”.  

E Tajani? Compare in Transatlantico a ora di pranzo. La riunione del gruppo di FI ha appena ratificato la scelta di promuovere Giorgio Mulè vicepresidente di Montecitorio: dopo la sostituzione di Paolo Barelli con Alessandro Cattaneo, è un altro colpo di Licia Ronzulli, un altro sfregio che la favorita di Arcore fa a quello che è stato fino a qualche settimana fa il suo più fido compagno di brigata. Lui reagisce da uomo di mondo, qual è. Dissimula serafica indifferenza al tumultuoso complicarsi degli eventi. Prima di arrivare alla Camera è stato ricevuto con tutti gli onori dall’ambasciata israeliana a Roma: incontro cordiale, foto di rito, l’accoglienza che si riserva agli amici veri. “Non commento né totoministri né audio estrapolati”, si schermisce. “Antonio deve solo aspettare che si deposito questo polverone assurdo”, dice Barelli.

E però a metà pomeriggio, la polvere turna a turbinare. Il nuovo audio, la nuova esibizione di fervore putiniano del Cav., quella ricostruzione della guerra, anzi dell’“operazione speciale” dell’“amico Vlad” che è la stessa dei falchi del Cremlino, mette di nuovo a rischio le ambizioni da ministro degli Esteri di Tajani. Che con Meloni si sente, e prova a rassicurarla come può.  Ma lo zelo nel rimediare rivela in modo ancor più lampante il disagio. Eccolo che twitta per festeggiare l’assegnazione del premio Sacharov da parte del parlamento europeo al popolo ucraino, con tanto di foto di Zelensky: lo stesso che Berlusconi descrive come un manigoldo sanguinario. “Domani sarò al Summit del Ppe per confermare la posizione europeista, filo atlantica e di pieno sostegno all’Ucraina mia e di FI”, ribadisce lui, che il Parlamento europeo lo ha presieduto, e con merito. Solo che nel frattempo, dagli “amici popolari”, arrivano bordate terribili. Gli estoni: “E’ ora che il veterano si ritiri per non dire sciocchezze nella sua demenza. Elogiare Putin è un atto criminale”. I polacchi: “Farebbe bene a rimandare indietro la vodka. Putin è un criminale di guerra”.

Il capogruppo Cattaneo, che proprio dieci giorni fa è andato a conoscere i vertici dell’Ambasciata americana col suo collega Matteo Perego, dispensa cautela: “Appena il governo parte, tutto questo rumore di fondo si dissolverà”. E però, appunto, il governo va fatto partire. E Tajani, per la Meloni, era l’alleato in più per puntellare la maggioranza: era lui il riferimento obbligato, forse perfino esclusivo, dentro FI. E del resto, dettaglio non secondario, era stato proprio lui a innescare quella sgangherata sequela di accidenti che ha poi portato alle elezioni. Fu lui, ricevuto a Palazzo Chigi insieme a Matteo Salvini, a usare i toni perentori con Mario Draghi. Era il 19 luglio: “La tua malafede nei nostri confronti, caro presidente, non è mai stata in discussione. Ma per andare avanti vogliamo la garanzia che si voterà a marzo, e non a maggio, del 2023”. Al che Draghi un po’ si risentì: “Ma come vi permettete di chiedermi questo? Parlatene col Capo dello stato, semmai”. Finì come si sa. E la Meloni gli fu, e gli resta, debitrice anche per questo.  Ora rinunciare a lui, farlo fuori dal governo, o anche solo declassarlo – magari spostandolo dalla Farnesina al Mise, come perfidamente suggerivano i fedelissimi della Ronzulli, giorni fa, “per metterlo a gestire le crisi industriali e il caro bollette” – sarebbe, più che un affronto a un amico, sarebbe un dispetto a se stessa. Perché senza la sponda di Tajani, Meloni perde un appiglio forse fondamentale. “Lui non è in discussione”, dicono da FdI. “Ma pretendiamo che si dissoci in modo inequivocabile dal Cav.”. Deve perdere la faccia, dunque, per non perdere la Farnesina?

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.